CapitoloII

II – Vite scandalose e disoneste: la prostituzione.
2.1- La recidività: Marianna e Smeralda.
Partire dalla scandalosità significa partire dai precetti impartiti e trasgrediti più volte. E’ questo il segno rivelatore di un livello di trasgressione dell’ordine sessuale che richiama la mobilitazione dell’autorità. Al primo precetto si arriva generalmente dopo esser stati ammoniti dal parroco per tre volte, Il rinnovo dei precetti rappresentava un momento critico e decisivo. E’ in questa fase che si gioca il rientro nella norma, nel vivere onestamente e cristianamente, o la caduta definitiva nel peccato, determinando gli esiti di una esistenza. In questo momento critico i precetti si rinnovano a breve distanza, segnano un accelerazione critica. Ad essi potranno seguire la condanna, nei rari casi di aperta insubordinazione, o l’allentamento dell’attenzione repressiva come nel caso delle donne di un rientro nella norma o la caduta definitiva a una condizione di meretrice considerata irrecuperabile e da perseguire solo quando tiene comportamenti provocatori. Una condizione di donna funzionale allo sfogo lo seminale e rappresentazione vivente delle aberrazioni del peccato.

SCHEDA: Fano e la prostituzione in età medioevale e moderna..
In assenza di studi dedicati, riteniamo che la vicenda della prostituzione a Fano nei secoli antecedenti non si discosti molto da quella altre realtà. Nel medio evo, in diverse località marchigiane, in accordo con le tendenze europee, sono presenti pubblici postriboli che denotano l’interesse dei comuni ad una prostituzione ordinata e regolamentata. Macerata nel 1391 e in seguito San Severino, Jesi e Camerino documentano tali orientamenti e l’inserimento delle Marche in un circuito europeo della prostituzione. Anche a Fano sembra svilupparsi, a
partire dal 1300, una tendenza favorevole alla regolamentazione degli amori venali. Forse il costituirsi di un ambito di gestione municipale e signorile del meretricio. Nel 1367 Galeotto Malatesti con un bando proibisce alle prostitute la frequentazione di alcuni luoghi della città e le obbliga a portare un berretto rosso con un sonaglio in cima. Non necessariamente questo regolamentazionismo significa maggiore tolleranza, anzi la logica postribolare va di pari passo con una normativa durissima verso la prostituzione privata e clandestina.
Delimitazione dei luoghi e riconoscibilità delle meretrici sono le costanti che ricorrono nei documenti fanesi, nel 1407 risulta la presenza abitativa di meretrici a porta Santo Spirito (verso Ancona), mentre nel 1475 il consiglio vorrebbe costringerle ad abitare fuori Porta Galera, verso il mare, affinché utilizzino per lavarsi l’acqua salata. Da un atto notarile apprendiamo dell’esistenza nel 1494 di un postribolo pubblico dove risiede una certa Bernardina di Candia e ancora nel 1560 il Consiglio generale della città delega delle persone deputate a che”…habbino a provedere che le donne di mala vita che abitano in diversi luoghi per la città, siano ridotte in un luoco solo separato per la loro habitatione acciò la città non sia infettata tutta di simili meretrici overo siano costrette a portare un signale secondo che parla il statuto acciò siano reconosciute dalle donne da bene”.
Le città assorbono la prostituzione e la fornicazione maschile come prodotti naturali. ”Agli uomini sarà così concessa la prova di virilità che loro si attendono ,mentre le donne oneste ,madri e vedove, saranno protette dall’adulterio attraverso la disciplina della prostituzione.”
La città mercantile con la sua prostituzione trionfante aprì la strada delle giustificazioni teologiche e partire dal secolo XIII “… i più lucidi tra i teologi compresero perfettamente che il bene comune dell’ordo conjugatorum non si poteva nemmeno concepire senza una prostituzione ordinata”. Si tratterebbe quindi di tollerare il male minore e a proposito inizia a circolare una glossa pseudo – agostiniana. “La donna pubblica è nella società ciò che la sentina è in mare , e la cloaca nel palazzo. Togli la cloaca e l’intero palazzo ne sarà infettato.”
L’orientamento della società verso la vita sessuale segnerà a partire della seconda metà del cinquecento una decisiva svolta restauratrice perseguita dalle chiesa post-tridentina nei secoli seguenti. Per la prostituzione l’opera dei riformatori fu graduale e imperniata su una confusione sistematica generalizzando l’uso del termine meretrice, la comparazione tra le condotte troppo libere e i rituali diabolici, un uso del bordello come luogo di segregazione in attesa della sua soppressione. E questa funzione residuale ci sembra deputato quel postribolo pubblico la cui esistenza nel baluardo di Fano è testimoniata da un processo del 1616 contro due meretrici ree di aver esercitato fuori dello stesso. Un percorso lento se ancora nel 1640 il meretricio è una condizione soggetta al pagamento delle collette. Anche in questo Fano non sembra avere ritmi diversi da quelli di realtà vicine come Urbino.
La recidività al precetto è un momento critico del nostro contatto con i percorsi esistenziali delle protagoniste, spesso è difficile distinguere tra una scandalosità generica e i repertori comportamentali di una prostituzione che è prevalentemente occasionale. Difficile anche per i linguaggi usati; “pubblica meretrice” può essere chiamata ogni donna che si mostri libera nei rapporti sessuali, ne è facile discernere il carattere mercenario di una relazione quando dalle prestazioni sessuali non si ottengono riscontri monetari. Né quest’ultimo aspetto, la mercede, è quello su cui si accentra l’attenzione degli inquisitori che sono più interessati a punire i clamori suscitati dalla dissolutezza. Ma a volte la situazione è evidente. Racconta una recidiva “..colla suddetta Mariuccia, Giovanna e Smeralda andavamo sempre a spasso e la detta Smeralda ci conduceva a fare del male in materia d’amore, avendo il giorno cercato dei soldati ed altre persone povere per fare del male con noi…, la detta Smeralda riceveva i quattrini dagli uomini che facevano del male con noi e poi prendendosene una parte…” Sono le parole Marianna G. che narra l’esito della sua “avventura pesarese”, una vicenda emblematica dei destini di questa ex esposta del Conservatorio S. Michele. La donna ha 26 anni e si dichiara tessitrice. Sposata da sette anni, da due vive separata dal marito perché questi voleva farle “fare vita disonesta”. Anzi costui, con il quale dice d’intrattenere pessimi rapporti, sarebbe l’artefice della sua corruzione perché, “…anche di consenso di mio marito ho tenuto una vita scandalosa ed ho avuto commercio carnale con molti uomini.” Ovviamente nessuno ha informato la Curia della separazione. Poco tempo prima, il 13 febbraio 1823, Marianna, interrogata dal procuratore fiscale del Tribunale, narra di aver stretto amicizia con un soldato di Linea, Emidio d’Ascoli, “…il quale ha usato con me carnalmente e credo di eser gravida benché non avendo da circa due anni i miei benefici non posso darne una positiva sicurezza…”. La donna ha trovato casa da poco nella Cura di S. Marco e spiega la sua facilità di fare amicizia con i militari perché non avendo casa “..ne maniera io di prenderla in affitto andavo dormendo ora sotto un porticato, ed ora sotto le logge in Piazza ed ai quartieri delle mura.” Lo stesso giorno viene interrogata Smeralda R., una vedova quarantenne, nata a Fano. La donna è unita a Marianna dalla convivenza sotto lo stesso tetto e dalla frequentazione dei militari. Essa confessa di aver avuto amicizia carnale con alcuni di questi e di esser andata in loro compagnia per le Bettole. Le due donne saranno precettate sotto minaccia del carcere. Marianna a custodire il presunto feto, vivere cristianamente, non conversare con uomini sposati e non uscire di casa la notte. Smeralda a non conversare con uomini e a non uscire di casa dall’ave Maria alla levata del sole. Della scandalosità delle due parlano le vicine. Marianna C., che abita nello stesso “stradinello”, racconta” che ricevono uomini notte e giorno e che “i soldati specialmente le danno da mangiare…” Queste donne non solo sono disoneste ma anche, secondo la pubblica voce, “pubbliche meretrici”. Come vedremo anche in seguito le testimonianze seguono sempre modalità oblique, ciò che si racconta è sempre il frutto della fama e della pubblica voce, perché riferire o giudicare in prima persona può denotare la cattiva abitudine di non farsi i fatti propri. Ed infatti l’unico fatto che Marianna può riferire è di aver vista l’indagata andare a bere con un Dragone all’osteria da Cinigia. Anna , moglie di “Fagotto” proprietario della casa abitata dalle due, racconta di aver affittato la camera per compassione ma dell’affitto non ha ricevuto altro “..se non che 2 paoli pagati dal soldato di lei amico…” Marianna, che ha ricevuto l’abitazione alla fine del 1822, a febbraio accoglie con se la Smeralda e saltuariamente una forestiera che pare essere la vedova di un maresciallo. Le tre donne attirano l’attenzione e a quel punto scatta l’intervento della Curia. Dopo l’arresto ed il procedimento appena narrato, Marianna, o per sfuggire all’osservazione dell’autorità, o perché effettivamente “..non trovava maniera di vivere..”, si sposta a Pesaro nel dicembre unitamente ad una certa Mariuccia. Trova un’occupazione andando a servizio da una signora ebrea. Ma questa vita non dura molto perché, nonostante gli ostacoli posti dalla padrona, la giovane ricomincia a frequentare ed a subire l’influenza nefasta della Smeralda (almeno questo è ciò che vuol far credere). La compagnia è rafforzata dal reclutamento di una certa Giovanna, contadina di Novilara che aveva seguito Smeralda chiedendole di “..procurarle gli uomini..” Il soggiorno a Pesaro è breve e le donne, cacciate dalla polizia, tornano a Fano dove la storia trova il suo epilogo, quando, giunte verso l’una di notte, Marianna compie il “male” con un vetturino forestiero in cambio di un paolo “…per mangiarlo assieme alla Smeralda.” Sono i primi di febbraio del 1823 e i Carabinieri Pontifici procedono ad un rapido arresto. Marianna, interrogata cinque giorni dopo, attribuirà la responsabilità del suo comportamento alla nefasta influenza della Smeralda che “..è una pubblica ruffiana e che porterebbe anche la colpa di averla fatta disunire dal marito…” La sentenza per la vedova arriverà a luglio, dopo diversi mesi di carcerazione; l’esilio perpetuo da Fano e diocesi, il precetto di vivere onestamente e la minaccia di 7 anni di reclusione in caso di trasgressione. Qualche successivo accenno troveremo su Marianna, riferimenti che a distanza di parecchi anni sottolineano la prosecuzione di un percorso di vita ormai segnato.

La breve storia che abbiamo narrato è emblematica ed evoca elementi tipici, e stereotipi tradizionali. Tracce che seguiremo per iniziare a mettere a fuoco alcuni problemi e argomenti. L’abbandono del coniuge, gli uomini e le donne sole, il ruolo dello stato nell’alimentare e controllare questa solitudine, la miseria e il denaro, la casa e la città, lo stile di vita, i clienti e i testimoni, la mobilità e il territorio, il lenocinio e le tipologie della prostituzione, la salute e la recidività. Iniziando proprio da quest’ultimo aspetto occorre sottolineare che pur essendo presente anche in altri tipi di reato, la recidività, è molto più forte, nei reati di disonestà. Nonostante la difficoltà di seguire i trascorsi e le vicende di protagoniste e protagonisti, nella biografia di moti i precetti e la loro violazione si susseguono. Donne scandalose prevalentemente, ma anche uomini, quando si tratta di relazioni adulterine. Le cause di questa elevata recidività sono le più varie, difficoltà di reinserimento economico e sociale, il rifiuto e la rivolta contro norme di comportamento, la difficoltà di modificare stili di vita ecc. Una difficoltà supplementare è legata alle modalità con cui il precetto era impartito, spesso poco formali, e alla vaghezza di contenuti e tempi . Anche Smeralda è una recidiva e la storia appena narrata è solo una parte della sua vicenda giudiziaria. E’ infatti al suo terzo precetto. Il primo, risale al 1814. La donna ne accenna durante un interrogatorio del 1820, quando nei suoi confronti viene aperto un secondo procedimento. A suo dire quel primo precetto sarebbe stato causato dall’amicizia con un vetturino, ma doveva trattarsi di un grave comportamento dato che viene sfrattata da città e diocesi, deve partire immediatamente e non tornare sotto pena della frusta pubblica ed altre pene. In realtà la donna è a Fano dopo un anno, dopo aver, a detta della stessa, soggiornato a Mantova alla ricerca del marito. E’ venuta senza chiedere il permesso del vescovo, “costretta a ritornare anche non volendo”, come dice durante l’interrogatorio, “siccome non si può stare in altri luoghi se non nella propria patria”. Ma sotto l’incalzare delle domande, riconoscerà che è stata costretta a tornare a forza perché nelle altre città non poteva restare e perché speranzosa che la morte del Vescovo precedente favorisse il suo tentativo di passare inosservata. Ed in effetti questo è ciò che avviene per cinque anni, densi di altri, grandi eventi che forse distraggono l’attenzione. Ma la donna riappare perturbativa o torna ad essere ritenuta di nuovo tale. L’otto febbraio 1820, alle due di notte, Smeralda sta tornando da Pesaro, dove racconta di esser stata a prendere delle “puntine di fagioletti” per il padre. Mentre passa in Piazza, davanti alla Granguardia, saluta il caporale comandante. Il saluto suscita la reazione violenta di un soldato di linea “con cui faccio all’amore, saranno otto, nove mesi.” Dopo esser andata dal padre per le consegne e “siccome sentivo dolermi la vita dai pugni…, ritornai alla Granguardia dove cominciai a dire dei vituperi allo stesso soldato…”. Viene arrestata all’osteria di Bonetti dove era andata a bere subito dopo il fatto. Anche stavolta, la vera pena per il suo comportamento sarà la lunga carcerazione in attesa del giudizio. Il procedimento aperto e concluso il 4 e 5 settembre, dopo sette mesi di prigione, è centrato sulla violazione del precetto del 1814. Smeralda dice di non ricordarselo. “Ma giacché la parola non ricordo in un fatto proprio del Fisco non si ammette anzi si crede un sotterfugio…”, la donna viene incalzata dal Procuratore Fiscale, si giunge alla lettura dell’atto e all’evidenza manifesta della trasgressione del precetto d’esilio. La situazione sembrerebbe grave ma la linea negativa della donna funziona. Non sappiamo se ciò dipenda dalla coscienza che i precetti venivano impartiti in maniera poco chiara a donne generalmente analfabete, se sia dovuto alla magnanimità del vescovo, che il giorno seguente riceve la classica richiesta di grazia, o perché si ritengono punizione sufficiente i mesi passati in carcere. Sta di fatto che la donna viene scarcerata con un nuovo e più lieve precetto: quello di “…vivere cristianamente e onestamente, non trattare ne ricevere in casa soldati ne altre persone sospette e non uscire di casa suonate le ore ventiquattro”.

Il difficile per la donna precettata o condannata come disonesta non stava solo nel rispetto di uno stile di vita prescritto ma anche nella difficoltà di un reinserimento sociale. Difficile per l’ostilità e la diffidenza della gente. I dissapori con il vicinato erano un fatto frequente, la vita urbana aveva più che nel quartiere la sua base nella strada. La via è un terreno di scontro privilegiato dove le donne litigano a colpi d’ingiuria. Qui esse esprimono spesso una socievolezza aggressiva in un ambito di relazioni libere nelle quali svolgono un ruolo di informazione e di commento. La strada, come il lavatoio, le botteghe sono lo scenario di relazioni di amicizia e solidarietà, ma anche teatro di un uso conflittuale e litigioso di parti comuni, di porte, case, acqua o immondizie. Dalla dimensione dello stradino i singoli partecipavano poi alla dimensione più vasta della città. Da questa condizione si origina una vasta conflittualità. Centinaia di procedimenti spesso di poco conto sono reperibili presso i fondi dei vari tribunali. Ma quando l’ingiuria, la lite e lo schiamazzo coinvolgono la donna disonesta riattirano su di lei l’attenzione e servono da conferma della sua oscenità e blasfemia e del mantenimento di un comportamento non adeguato. Si ha la conferma del pessimo giudizio morale sull’inquisita. La difficoltà di accedere al lavoro rende difficile per la totalità delle meretrici fuoriuscire da una condizione miserabile a causa delle poche opportunità offerte. Dal carcere si esce più povere di prima, spesso prive di qualsiasi rete di relazioni se si escludono quelle centrate sulla pratica della prostituzione. A ciò si unisce la totale esclusione dall’accesso alle reti della beneficenza cristiana. Una condizione precaria nella quale si intreccia la delusione e la difficoltà nel costruire o mantenere una esistenza normale. La difficoltà di poter attivare comportamenti di rientro nella norma favoriva la recidività un rientro reso ancora più difficile quando collegato a relazioni sentimentalmente forti o all’abbandono coniugale.

2.2- L’abbandono del coniuge: Cattarina
Tratteremo più avanti i casi di semplice adulterio, ma ci sembra utile cercare di cogliere i motivi che portavano a rubricare sotto le stesse voci di “vita disonesta e scandalosa” o “pratica disonesta” comportamenti che oggi ci appaiono assi diversi. Il dato principale è sicuramente collegabile al clima ed alla cultura della restaurazione sessuale affermatasi nei secoli precedenti. “Va ricordato che in età moderna il termine puttana aveva un doppio significato, indicando sia una donna che vendeva il proprio corpo per denaro, sia (e il termine vive ancor oggi, ma solo in senso violentemente dispregiativo da parte di chi non approva la sua condotta) una donna che aveva rapporti sessuali con un uomo che non fosse suo marito, per amore romantico, passione sessuale, oppure semplice simpatia e curiosità.” Linguaggi ed abitudini di una società ansiosa di imporre l’astinenza sessuale a chi non fosse sposato e di impedire ogni unione extramatrimoniale. Per questa società la scandalosità e il primo e più importante elemento di condanna è la rottura dell’ordine della sessualità coniugale. Altri elementi come la natura mercenaria della scandalosità finiscono in questo contesto per diventare meno importanti. Ma anche quando il meretricio tende a differenziarsi dalla semplice scandalosità il legame non si interrompe, si rovescia semplicemente in un rapporto funzionale al sistema. Un percorso quest’ultimo che culminerà nella seconda metà del secolo con la regolamentazione quando la professionalizzazione della prostituzione stabilirà un legame funzionale tra mantenimento dell’ordine, famigliare o sociale, e adulterio maschile legalizzato. Anche per queste ragioni crediamo che non si possa isolare lo studio della prostituzione da quello dei repertori comportamentali legati alla sessualità di una società e di un epoca nel suo complesso. Ciò è ancora più necessario per una società orientata in senso proibizionista e dove come nel nostro caso la vita sessuale ruota attorno all’istituzione matrimoniale. Qui, adulterio e meretricio si trovano riuniti per il pubblico scandalo che generano. Entrambi causano disordine sociale e familiare. Appaiono come i due estremi di un percorso che dalla semplice e limitata rottura dell’ordine coniugale può portare, per caduta su di un percorso più o meno rapido, al meretricio o al lenocinio. L’adulterio introduce un conflitto che può portare alla separazione della famiglia e non sempre è facile per la chiesa ristabilire, anche solo formalmente, l’ordine turbato. Donne spesso abbandonate ma che a volte abbandonano, coppie che si riformano sulla base di false certificazioni o che esistono solo sulla carta e coprono altre realtà. Un vasto campionario di storie di quello che potremmo definire il divorzio stile ancien régime. Facendo leva sulla mobilità legata dalla ricerca del lavoro, approfittando di particolari eventi o fidando sulla difficoltà di rintracciarli, uomini e donne abbandonano il coniuge o si separano nei fatti senza rotture eclatanti. La crisi del nucleo familiare unita alla marginalizzazione del lavoro femminile creava un mondo di “donne incerte, sfuggenti a classificazioni definitive. Donne oscillanti tra la prostituzione occasionale, e quindi l’accettazione della loro espulsione dal mercato matrimoniale e la speranza persistente di trovare qualcuno ancora disposto a sposarle.” Il precipitare di alchimie matrimoniali malriuscite alimentava l’esercizio del meretricio. Per la donna sola, abbandonata o che ha abbandonato, questo, nel caso sia povera, è una delle poche risorse disponibili. In un sistema proibizionista, che tollera il meretricio come male minore ma che lo nega come condizione, il confine tra il comportamento scandaloso e la prostituzione si presenta molto mobile e inquietante, sovvertitore e da presidiare attentamente. Abbiamo visto che Marianna e il marito erano separati da anni. Quando lei lo incontra in piazza, l’uomo la saluta “…col dirmi che vada all’inferno”. Smeralda da parte sua è ormai vedova di fatto. Invece il marito di Cattarina S., Domenico, l’ha abbandonata dopo i tanti guai che questa gli ha causato facendolo in ultimo cacciare dal corpo dei carabinieri Pontifici. Tornata a Fano la donna si inventa un lavoro vendendo “aqua vita” in botteghini lungo la strada e organizzando “riffe e lotti” che offrono poveri premi; un corpetto rosso, pesce e pollastri tutti esibiti in maniera estemporanea nei pressi di Porta Giulia. Per strada le danno della puttana e queste attività svolte a contatto col pubblico suscitano il sospetto dell’autorità. La giovane, ventiseienne, è orfana di padre e vive in città appoggiandosi alla madre. Prima del ritorno era stata arrestata ed esiliata dalla polizia di Senigallia in occasione della fiera. La donna che si porta dietro una cattiva fama sarà precettata a che:”….. ritenesse la città di Fano in luogo di carcere, e che stesse a disposizione di questa Curia ..”. Un esilio all’incontrario, che se le permette di usufruire di un limitato vantaggio la costringe al controllo e alle regole della comunità di appartenenza. Situazione simile a quella di altre coniugate inquisite per la loro condotta come Maria V., che non ha più notizia del marito, capomastro muratore, o Barbara B., ventisettenne di San Marco, che non ha più legami col marito, ex carcerato e che si dice faccia il sellaro a Terracina. L’abbandono o la separazione anche temporanea crea una situazione di solitudine innaturale, vista come ancora più pericolosa delle altre solitudini femminili (il nubilato e la vedovanza). Come quest’ultima può significare il dover sostenere una famiglia, ma al contrario di questa non poter ricostruire un nuovo quadro familiare se non millantando una vedovanza. Simile, anche se teoricamente temporanea, è la situazione di molte popolane che vivono la separazione causata dalla carcerazione del marito. Spesso esse si trovano ugualmente senza altre risorse. E’ il caso di Camilla M., il cui marito Paterniano è carcerato condannato a 7 anni di opera pubblica e che viene precettata perché accoglie e “…tratta familiarmente con uomini di ogni specie e segnatamente coi militari” Ma esistono situazioni in cui la separazione esiste in forma diversa. E’ il caso dei falsi coniugi, oppure di mariti che non esercitano lo jus corriggendi o che sono compiacenti quando non direttamente interessati alle attività della moglie. Sembra il caso di Michele C., anziano falegname, nominato da Geltrude T. per averle fatto da ruffiano. Rosa, la moglie in seconde nozze di questo sessantenne, viene inquisita per aver avuto pratica disonesta con un certo Raffaele. Il fatto è raccontato dal figliastro quattordicenne la cui complicità veniva pagata. Il rettore di san Tommaso certificando che Rosa ha corretto l’immorale condotta rileva che:”…fu ripreso con parole alterate dal suo marito Michele, così che soffrì mal volentieri che io avessi corretto la condotta di sua moglie.” La rabbia di un marito può far emergere la dimensione e gli equivoci di un matrimonio di “copertura”, a quel punto l’abbandono del coniuge serve solo a svelare la realtà del rapporto. Anche qui adulterio e modalità vicine a condotte prostituzionali in senso lato si avvicinano. E’ il caso della storia di cui sono protagonisti Antonio R., falegname e portiere di Porta San Leonardo, e la sua ex serva corinaldese Teresa. Una vicenda resa ambigua perché oscilla tra l’abitudine di molti padroni di dotare e dare una famiglia alle vittime della loro seduzione e l’interesse a prolungare la relazione, mantenendola nascosta sotto un matrimonio di copertura. I due avevano avuto negli anni ripetuti commerci carnali. “Egli se ne serviva come altra sua moglie sebbene fosse sposato”, dice il marito di lei, Fortunato, che narra come Antonio avesse organizzato il matrimonio promettendogli una dote di cento scudi in mobili e denaro. Il sediaro porterà la sua delusione in tribunale. Il motivo crediamo che sia causato più dall’incompleto mantenimento della promessa economica che dal proseguimento della relazione. O forse il comportamento dei due era troppo evidente, dato che Antonio andava “….conducendola via di casa la sera fino le tre e le quattro ore della notte ed anche la mattina a buona ora; essendo stati veduti andare sulli muri attorno i Cappuccini”. Scoppia la lite, Antonio, che ha la chiave di casa, si riprende i mobili e Teresa abbandona l’abitazione. A quel punto arriva la querela del marito abbandonato e derubato. E’ il passaggio saliente di una vicenda processuale che si snoderà per quattro lunghi anni concludendosi nel 1829. Infatti ad Antonio e Teresa era già stato intimato un primo precetto, nel 1824. La minaccia era di una condanna esemplare per l’uomo, 10 anni di galera, e per lei i soliti 3 anni in casa di correzione. Teresa aveva all’epoca 22 anni. Aveva lasciato presto Corinaldo andando un anno a servizio a Fossombrone e poi, da più di sei, a Fano dal falegname. Ha a malapena diciotto anni quando lui “…attese le promesse che mi faceva mi stuprò e mi rese incinta”. Per timore della moglie, la ragazza lascia e riprende il servizio in casa diverse volte. In ogni occasione è Antonio a collocarla presso nuovi padroni e a trovare il modo di frequentarla. Per incontrarsi usano case, come quella di Antonia “la cucca” agli orti del Suffragio o le assenze dei padroni di lei. La porta con se a Fossombrone dove sta un mese per svolgere un lavoro, attirando l’attenzione di quella curia, o la colloca da un contadino di Rosciano dove a detta di lei è “…mantenuta sempre dal R.”. Antonio ha già ricevuto le ammonizioni canoniche nel 1823 ed è sposato da trent’anni, da venti con l’attuale moglie Clarice, la terza. La sua famiglia è composta dalla figlia quindicenne Margherita. L’uomo con i suoi 50 anni sembra non riuscire a vivere senza la molto più giovane Teresa. E’ il precetto del 1824 a ispirare nell’uomo l’idea di combinare le nozze della ragazza con Fortunato. Ma, come abbiamo visto, il matrimonio di copertura non dura. Nascono i dissapori, poi il furto notturno della dote, portata “..nella camera superiore sopra la Porta S. Leonardo detta la camera dei matti, perché vi si custodiscono i matti, di cui teneva la chiave il R. come portinaio.” Dopo il fatto Teresa è latitante e Antonio “…se ne sta guardingo rifugiandosi spesso in chiesa” per sfuggire all’arresto sfruttando l’immunità del luogo.. Il testimone Luigi R. scrittore sostiene che il R. “sia uno sprecone”. Domenico che ha ospitato Teresa, come dozzinante, a spese del falegname, per uno scudo al mese racconta che”…niente gli mancava , e che era mantenuta in tutto, cosicché mancandogli qualche cosa, essa strepitava, dicendo di lui che si era obbligato di mantenerla di tutto” Il notaio P. che roga l’istrumento dotale del matrimonio di Teresa racconta che “…il padre della detta Teresa promise 100 scudi…parte in danaro, parte in corredo, ed in provisione di attrezzi da falegname” ma data la miseria dell’uomo “…ch’era avvolto fra i stracci, io sospettai che i 100 scudi promessi…si pagassero da Antonio R…”, inoltre la moglie del R. gli avrebbe confidato che la Teresa è “la putana del di lei marito”. Si ricostruiscono le tappe della fuga della giovane; la casa del notaio, una notte passata al borgo di Pt. Marina per poter partire da Fano prima dell’apertura delle porte diretta, sembra, a Senigallia Anche Antonio non vuole restare rintanato nella chiesa di S. Leonardo e medita la fuga. Ma il Cursore, solerte funzionario della Curia, grazie ad una soffiata, si apposta aldilà del Ponte Metauro “…con un numero di cinque soldati di linea da me ritenuti più fedeli e più esecutivi de’ carabinieri, ai quali ben si sà ne’ scorsi giorni sortì dalle loro mani un arrestato..” L’agguato va a buon fine e l’uomo viene carcerato assieme ai complici. La sua linea di difesa è quella di negare quasi tutto. Nega di essersi obbligato per la dote, sostiene di aver avuto un solo rapporto carnale con la giovane,”…quella volta che l’ho ingravidata”. Afferma che “..l’ho alimentata, gli ho trovata casa per non vederla perduta e fare la cattiva vita con alcun altro…” Per la pubblica accusa invece è incorso nella pena di 10 anni prevista dal precedente precetto. Pertanto nel luglio 1825, dopo circa un mese dall’arresto, si procede alla pubblicazione del processo e consegna degli atti al difensore dell’uomo, che a settembre depone la memoria difensiva. Dopo alcuni giorni arriva per Antonio la condanna a 5 anni di galera. Egli è l’unico che sta pagando data la latitanza degli altri, ma presto gli si prospettano dei miglioramenti.. Dopo nove mesi passati nelle carceri vescovili, nell’aprile del 1826 ottiene di poter essere carcerato in un locale claustrale e “…di tener in luogo di carcere il locale di S. Domenico dove potrà esercitare la sua professione mantenendo se stesso e la famiglia”. Non potrà uscirne pena una multa di 100 scudi, dovrà confessarsi 1 volta al mese e prestare la sua opera per un mese all’anno in favore di qualche luogo pio. Per lui si obbliga Antonio L. Ma dopo pochi mesi, nel settembre la curia torna ad occuparsi del falegname, dato che sembra che esso vaghi non solo per la città ma anche fuori. Addirittura si è trasferito a Fossombrone dove è stato quasi un mese “abitando in una camera del Teatro finché non andette in scena l’opera”. Antonio invia una supplica al vescovo perché possa tornare nella cittadina per finire dei lavori, il permesso è concesso. Nel luglio del 1827 il cursore lo arresta perché, tornato da Fossombrone, non rientra a S. Domenico ma passeggia pubblicamente e va a dormire a casa. Nuove memorie difensive, cambia il garante e si riconferma la pena. Intanto a distanza altri due anni, nell’estate del 1829, Teresa viene trovata e precettata di nuovo. Si conclude così, stando ai documenti a nostra disposizione, uno dei rari casi in cui è l’uomo ad essere punito con maggiore forza. La vicenda di Antonio, ci mostra che forse anche nella provincia stia avvenendo un evoluzione di comportamenti che segue il resto del continente. In Francia già dalla fine del secolo precedente, i borghesi si sentono meno tentati che nel passato dagli amori ancillari, ormai preferiscono mantenere una ragazza e metterle su casa. “All’assalto senza vera conquista, consentito dal semplice rapporto di dominio che si crea tra il padrone e la serva, tende a sostituirsi una relazione certo dai caratteri venali, ma anche tinta di rispettabilità e, lo si può supporre, condita con la passione.” Nella prima metà del XIX secolo il concubinato prolifera nelle città, una relazione temporanea oltre le barriere di classe, che coinvolge piccoli e medi borghesi, studenti, artigiani e commercianti con ragazze del popolo. Esso crea il dilatarsi del fenomeno delle mantenute, sfogo alle passioni maschili ostacolate dai comportamenti matrimoniali. Un concubinato ed una venalità sessuale che si sviluppa parallelamente allo sviluppo della privacy borghese. Pseudo – unioni che possono condurre anche alla costituzione di famiglie parallele, ma che generalmente sono votate all’incomprensione e alla rottura.

2.3-Donne sole e uomini soli: Sante e le rape di Francesca.
Nel dicembre 1819 Francesca ha 32 anni ed è vedova da tre. Ha lasciato Mondolfo diciotto mesi prima, assieme al figlio di dieci anni. Per un anno si è stabilita a Ferriano presso il lavorante di una nobile famiglia. Il figlio rimane lì quando lei decide di stabilirsi in città. Si sistema per breve tempo presso una famiglia di S. Leonardo ma viene poi assunta come servente garzona da un colono che abita alla Croce, poco lontano da Porta Romana. Verrà arrestata il 20 dicembre unitamente a Sante, vice caporale della Fanteria di linea, per essere i protagonisti di un fatto gravissimo che sarebbe accaduto due giorni prima: una cognizione carnale che si sospetta avvenuta nel Battistero della Cattedrale di Fano. Il Procuratore della curia, ha disposto l’arresto dietro comunicazione del sotto direttore di polizia che ha raccolto il resoconto di due testimoni. Il fatto, gravissimo, unisce alla scandalosità l’oltraggio alla sacralità del luogo. In generale l’incontro di una donna e di un uomo è sempre visto con sospetto, in questo caso la natura del luogo, lo status dei due (una vedova e un soldato) alimenta automaticamente l’idea di qualche “birbaria” o del rapporto mercenario. I testimoni sono due calzolai incontratisi per caso. Narra uno dei due: “…alzando gli occhi dalla parte della Porta laterale del Duomo che guarda il suddetto portone della Casa Gabuccini, vidi che dal Battistero sortivano un uomo e una donna, il primo aveva la Brachetta dei calzoni slacciata, che poi ricoprì col proprio cappotto e una donna che aveva la gonna alzata per modo che gli vidi per sino le ginocchia nude.” A questa vista il calzolaio Serafino dice di aver gridato: “=Brutta porca va in campagna a far male e no in luogo sacro = ed essa aggiunse = ho guadagnato quattro o cinque bajocchi = “. Nonostante la leggera discordanza tra le versioni dei testimoni, da esse vengono dedotti cognizione, dissacrazione e rapporto mercenario. Ma nonostante gli interrogatori e l’insistenza posta sui fatti osservati, la patuella slacciata, la gonna alzata, la confessione non viene. Sante e Francesca negano ripetutamente e risolutamente di aver commesso “birberie”, di essere stati visti e sgridati ed insistono di aver discusso sulla porta esterna della Cattedrale (e quindi senza commettere sacrilegio). Oggetto della discussione alcune rape che il soldato doveva comprare dalla donna. Il militare ha ventisei anni ed è in servizio da otto. Come vice-caporale sostituisce occasionalmente il caporale nel sorvegliare la spesa per il rancio, una operazione che lo mette a contatto con le venditrici. Le rape “per fare la minestra” creano un primo contatto con Francesca, ma l’affare non si realizza perché la donna arriva tardi in Piazza e l’uomo ha già concluso la spesa. I due s’incontrano di nuovo a distanza di alcuni giorni, a tarda sera vicino alla porta della Cattedrale. A detta di Sante, dopo un breve scambio di battute sulle rape che aspettava “…lei se ne andò per i fatti suoi ed io me ne tornai indietro passando in faccia al vescovado e andetti sulle mura per un mio bisogno.” La donna sostiene una versione dei fatti simile, ma le sue parole lasciano trasparire qualcosa. Racconta che tornando a casa, mentre passa vicino alla chiesa si sente chiamare da un soldato”…che mi parve mezzo ubriaco e rosso in faccia, che mi disse venire qua dentro con me indicandomi la porta…..e rifiutandomi io d’andare mi prese per un braccio….”. Questo rude approccio si sarebbe risolto con il seguente e poco credibile dialogo, “= ha più rape da vendere = al che io risposi = non so, sentirò la mia padrona = ed egli = quando le portate le compro =” La mancata confessione, l’esilità delle testimonianze e principalmente l’assenza di precedenti e di una fama negativa portano la vicenda ad una rapida conclusione. Intanto, il 12 gennaio, il soldato viene espulso dal corpo e spogliato degli abiti, resta colla sola camicia e le scarpe. La Curia dovrà provvedere al reo il vestiario occorrente “..onde non abbia da perire dal freddo.” Dopo circa un mese di carcerazione, avendo i due promesso di ubbidire, vengono scarcerati e gli viene “ingiunto precetto di dover subito partire da Fano e sua Diocesi e ritornare alla sua Patria sotto pena di nuova carcerazione…” Una pena tutto sommato lieve per chi con la comunità aveva scarsi rapporti. Una pena quella dell’esilio che colpiva soprattutto le meretrici ma che queste riuscivano spesso ad aggirare come dimostra il caso di Rosa, ventitreenne “meretrice di Pesaro”. La giovane viene arrestata, il 20 settembre 1819 sotto Porta Marina, per la vita scandalosa che conduce con dei soldati e con “..vari fornari di Fano”. Data la probabile flagranza è immediatamente precettata a dover “partire subito da Fano e non più tornarvi”. Invece sarà di nuovo arrestata a meno di un anno di distanza, il 28 agosto, mentre alle tre di notte, dà pubblico scandalo di fronte a sette persone fuori porta S. Leonardo. E’ in compagnia di un certo Giosafatta, detto “uccellone”, calzolaio e soggetto poco raccomandabile. Come causa della venuta a Fano, Rosa dichiara l’ennesima e poco credibile promessa di matrimonio ricevuta da un soldato. Alla rituale domanda del Procuratore sui suoi precedenti non nega il precetto ricevuto ma aggiunge:”…difatti è un anno circa che io non sono stata più in Fano, e vi son venuta all’occasione della Fiera di S. Bartolomeo sapendo che la fiera è libera per tutti, per comprare un pò di tela e non per altro…”. Un utilizzo sapiente della contraddizione tra due antichi istituti, la libertà della fiera e l’esilio dalla città. La puntuale supplica rivolta all’Illustrissimo e Reverendissimo Monsignor Vescovo, le schiudono la porta del carcere dopo pochi giorni con l’ingiunzione di lasciare la città sotto pena della carcerazione… La maggioranza delle storie viste ci introduce all’immagine e al sospetto che la solitudine maschile o femminile generava quando non era legata ad una scelta religiosa. “Nell’ottocento il modello familiare sprigiona una tal forza normativa da imporsi tanto alle istituzioni come agli individui e da creare vaste zone d’esclusione più o meno sospette.” Queste riguardano un numero considerevole di persone; solitari temporanei o permanenti, per necessità o per scelta. Portatori di comportamenti diversificati e contraddittori, che a volte s’ispirano ad una famiglia che non c’è, alla nostalgia di un mondo pre-familiare o al contrario a comportamenti d’avanguardia. Donne e uomini spesso rinchiusi in istituzioni dove il principio della segregazione sessuale è sempre più forte. Carceri, conventi, conservatori o caserme sono solo alcune di queste istituzioni. Le persone che vivono da sole anche fuori delle istituzioni sono in aumento per tutto il secolo. Il fatto di non essere sposati è vissuto in maniera completamente diversa da giovanotti e ragazze; un tempo valorizzato di libertà e apprendistato per i primi, un attesa del matrimonio per le seconde. Il rapporto tra prostituzione e solitudine maschile e femminile evoca immediatamente stereotipi come quello del militare, uomo solo, simbolo dell’aggressività e dell’esuberanza del giovane maschio irregimentata negli eserciti professionali o di massa dell’età moderna e contemporanea. Le nostre storie sono piene di Dragoni, soldati di linea, Finanzieri a cavallo. Fantasmi che appaiono. Clienti, amici o amanti di cui restano poche di se e che lasciano le donne a pagare, quasi sempre da sole, i prezzi del pubblico scandalo. I militari sono i più evidenti e i più sfuggenti tra gli uomini soli, le avanguardie di una massa semi-nascosta di celibi. Lo Stato moderno, nei fatti, alimenta con la sua organizzazione, il suo apparato e le sue regole ciò che dice di voler reprimere. Si tratta del circolo vizioso di una domanda e di un offerta di sesso a pagamento che in teoria si dice di voler eliminare ma che in realtà si tollera finché non appare perturbativo della vita comunitaria. Forse perché si ritiene, senza dirlo ad alta voce, che preservi da altri e più gravi perturbamenti. L’aggressività dei militari è uno di questi. Per frenarla, anche non solo per questo, si sono costruite in età moderna le caserme atte ad isolare il militare dalle comunità. Ma il contatto rimane sia per i corpi più numerosi e meno qualificati come la fanteria di linea, che per quelli efficienti ma posti, per ragioni di servizio, a continuo contatto con la popolazione e quindi più ricettivi verso le nuove idee politiche o culturali come i Finanzieri. Un discorso a parte sono i Carabinieri Pontifici, corpo d’élite secondo solo agli Svizzeri, che sono impegnati in prima persona nel controllo e nella repressione. Essi appaiono assenti come clienti ma sembrano pagare un pesante tributo in termini familiari. Non è forse un caso che la loro mobilità o la disciplina del corpo possano essere tra le condizioni che favoriscono la rottura o la disgregazione delle loro famiglie. Essi daranno con diverse mogli e figlie il loro contributo alla scandalosità. L’aggressività dei militari va controllata e contenuta e quando si rivolge alle donne oneste desta grande preoccupazione. Fatti che la polizia segue con attenzione. Eventi “normali” ma indicativi come quelli del 17 maggio 1823, quando un soldato di linea percuote una donna sposata, o del successivo 4 giugno, quando un caporale dà una “forte guanciata” ad una vedova che sta in piazza al suo banco della frutta perché “….avrebbe desiderato intavolare corrispondenza con la detta vedova ed il contegno rigido di quella lo avrebbe inasprito.” Frequenti risultano brevi carcerazioni o trasferimenti, ma non mancano anche misure più pesanti. Quando si tratta di donne scandalose le parti si invertono, per queste è difficile immaginare una tutela dalle angherie. Nel caso si tratti di militari stranieri, può al massimo trasparire una preoccupata ostilità. E’ il caso degli austriaci che dopo la rivoluzione del 1848, manterranno una presenza militare nella regione e ciò crea disturbi. Terenzio, abitante di S. Marco, scrive nel 1852, a Mons. Vicario chiedendo di intervenire per dare pace al vicinato. La causa sono le meretrici notorie Cecilia e Maria B., perché “…i soldati austriaci frequentano a drappelli la loro casa…e fanno minacce quando non trovano le donne o la loro porta è chiusa”. La lettera attira l’attenzione sulla situazione di Saverio, il “marito malaugurato” di Cecilia, che è stato ferito da tre soldati per essersi rifiutato di andare a cercare la Mariuccia. La situazione appare grave dato che un soldato, “accecato dall’impudico amore”, sembra disposto a qualunque eccesso. Maria e Cecilia sono due delle sorelle B., le cui gesta sono al centro della scandalosità cittadina e che per circa un quindicennio sono forse le più famose meretrici della città. Cecilia si destreggia tra i vari precetti e la difficile convivenza col marito, le separazioni e le continue riunioni. Il trattare i militari sembra una pratica comune delle sorelle cresciute in un ambito familiare favorevole agli amori venali. La maggiore, Maria ha 18 anni e da tre abita a S. Marco quando viene carcerata per la prima volta nel 1842. La donna si dichiara tessitrice e si sospetta che lei e le sorelle ricevano in casa uomini, in particolare marinai, forestieri, soldati e finanzieri con l’aiuto di Rachele O. che si dice le serva da ruffiana. E’ nell’abitazione di quest’ultima, posta al piano superiore, che Maria viene arrestata mentre beveva vino in compagnia di alcuni marinai. La casa è “un ridotto di maritate e giovani”, frequentata, a detta delle imputate, dall’Adelaide di Mondolfo, venditrice di cannelli, con Traversone, Carola B. con un signore Teresa M. con un carabiniere, Barbara M. con lo stesso Traversone, la Cesira in tresca con un signore, la Lucia e “tutte queste donne ora con un uomo ora con un altro”. Comunque Maria nega ogni addebito dicendo che quella sera era in corso una specie di festa, con il figlio di Rachele che suonava l’organetto. La giovane non è nemmeno gravida come stabilisce la perizia ostetrica. La madre, la vedova Angela è stata carcerata assieme alla figlia. Filatrice, ha 41 anni ed altre due figlie, Maddalena di 15 e Cecilia di 11 anni. Cerca di negare la situazione e racconta che in passato la figlia amoreggiava con un marinaio, il nipote della Polentona, ma lei era contraria “perché non poteva alimentare la moglie”. Pochi mesi dopo Maria si sposa con Benedetto, originario di Colbordolo. Ma ciò non serve a sviare l’interesse su di lei o a modificare la sua situazione, dato che il marito viene carcerato per furto e lei si ritrova sola. Nel maggio del 1843 viene arrestata perché sorpresa in casa dai carabinieri “in letto a dormire con certo Fortunato V. detto Scarpaccione ed in prossimità al medesimo Antonio O. detto Patacca…”. Anche i due giovani sono arrestati, il primo è coetaneo di Maria, il secondo ha solo 14 anni. A detta dei due era stata la madre di lei ad invitarli ad andare a trovare la figlia che era a letto da alcuni giorni ed a offrirle un baj di vino. Anche questa volta Maria nega atti disonesti ma viene dimessa dal carcere dopo una decina di giorni e precettata. Il 26 febbraio del 1844 viene nuovamente arrestata perché trovata sulle mura vicino a casa in “unione con il giovane Giacomo G.” ormai la donna è vista come incapace di “…moderare la malnata inclinazione alla prostituzione e a qualunque turpitudine…”. Le testimonianze dei vicini sulle sue frequentazioni sono unanimi. La linea difensiva di Maria continua ad essere quella di negare tutto. Gli unici ragguagli sul suo stile di vita ci vengono dalla testimonianza dell’ostessa Domenica. Racconta che Maria “sotto pretesto di bevere mezzo bajocco di vino e mangiare del pane si tratteneva delle ore e ore nella mia osteria e trattava con li soldati e i cittadini…”. Ai tentativi di cacciarla dall’osteria reagiva e la “tacciava da bizzocca, aggiungeva parole disoneste e diceva = Per Dio voglio stare qui perché è osteria pubblica e voglio mangiare e bere fino alle 2 di notte = Non si è vergognata di asserire che essa aveva commercio carnale con chiunque si presentasse, perché non aveva da mangiare e la madre la sgridava se non portava in casa qualche cosa da vivere.” Dopo una quarantina di giorni di carcere la donna è nuovamente liberata con il solito rinnovo del precetto. Ormai la donna è al centro dell’attenzione, il 17 settembre è trovata in compagnia di cinque militari e viene arrestata su ordine del comandante della guarnigione. A gennaio, quando inizia l’ascolto dei testimoni, Maria è ancora detenuta e verrà ascoltata solo il 28. Luigi sergente delle truppe provinciali assicura che la donna tratta spesso con i suoi soldati, è disonestissima sia in strada che in osteria e “ha sentito dire che sia stata trasportata anche dentro il Forte”. Lui l’ha ripresa più volte ma lei “rispondeva che della vita sua voleva fare quello che le pareva e piaceva…”. Maria, contrariamente a molte altre donne incontrate, sembra suscitare anche le ire delle mamme come Antonia il cui figlio sedicenne la frequenta invece di andare alla bottega di ebanista e che viene sorpreso dalla madre alle due di notte in casa della meretrice in compagnia dell’amico Paolino. Maria, nonostante i quattro mesi passati nelle carceri del Governo, continua a negare. Sostiene che non può trasgredire i precetti dato che i carabinieri passano a controllarla a casa sua verso l’una di notte. Dice che non ha mai mangiato e bevuto con i soldati “…e vorrei che morissero tutti”. Parla anche di Nazareno, il nipote della Polentona, forse l’amore che non ha potuto avere perché non volevano i Superiori e la nonna di lui che diceva “che io fossi una Putt…”. Nega anche di aver avuto il mal francese dato che le pustole che aveva qualche mese prima nelle mani erano la rogna contratta nelle carceri “…dalla quale sono guarita senza medicamenti”. Maria sostiene vari interrogatori nei quali continua a tenere una linea negativa e a non implorare nessuna clemenza. Il 22 febbraio vengono pubblicati gli atti dell’istruttoria ed il 18 aprile emessa la sentenza che la condanna a 3 anni di reclusione al S. Michele di Roma. Quella di Maria è una lunga storia e la sua biografia è quella che maggiormente si avvicina all’immagine della prostituta criminale e irrecuperabile. Una eccezione nel nostro panorama. Anche per altri è una eccezione. Dopo aver scontato la pena non scompare dalle cronache della scandalosità come fa la quasi totalità delle donne incontrate. Rientrata a Fano, donna sola che vive separata dal marito riprende la solita vita collezionando precetti ma anche pene per altri reati. Nell’agosto 1847 è già condannata a tre mesi di carcere per offese ad un uomo. Due anni dopo è di nuovo imputata per ferite procurate “con arma incidente” ad offesa di Antonio C., la condanna da parte del Tribunale di Prima Istanza di Pesaro arriva nel settembre 1850, 2 anni di Opera pubblica. E’ quindi da poco rientrata a Fano quando con la sorella è coinvolta nella vicenda con i militari austriaci citata all’inizio. Maria ricomincia la sua solita vita collezionando altri precetti fino ad arrivare ad un nuovo momento critico nel dicembre del 1854. Sono sempre le frequentazioni coi militari che la espongono ai clamori più forti, questa volta il passaggio a Fano di tre soldati del 1° reggimento estero, uno dei corpi d’élite dell’esercito pontificio, fornisce alla donna l’occasione per “darsi alle intemperanze” nell’osteria detta Il villanino. La cosa viene immediatamente a conoscenza di un caporale della guarnigione di Fano con il quale Maria è in relazione. L’uomo si porta rapidamente all’osteria e “furibondo la percuote con pugni e calci”, lei allora afferra un coltello da tavolo e nell’atto che cadeva vibra un colpo che invece di colpire il caporale ferisce uno dei soldati che cercava di separarli. Il comandante della guarnigione scrive al vescovo chiedendo provvedimenti contro la donna e le sue due compagne della serata, la sorella Cecilia e Vittoria la Bruschella, cattive donne che “vanno continuamente in cerca dei militari trascinandoli al vizio e alla crapula”. Ancora una volta la donna viene precettata, ma oramai la situazione è tesa. Nella notte tra il 3 e il 4 marzo Maria, che ormai ha 29 anni, viene arrestata assieme alle due giovanissime Vittoria G. detta “Bruschella” e Filomena T. di 17 e 18 anni. Tutte e tre le donne abitano a S. Marco e si dichiarano tessitrici o come Maria “tessara e tutt’altro che mi capita di lavorare”. Le donne sono rinchiuse nelle carceri del Governo perché accusate di furto. Infatti, sono state incontrate dal gendarme di pattuglia notturna e dai due soldati di linea che lo accompagnano sulla via che dalla Fortezza va a Pta Giulia. Sono le due e mezza di notte ed il gendarme incrocia Maria e mentre la interroga vede comparire dall’orto attiguo le altre “portando ambedue nel grembiule una quantità di cime di broccoli”. Chiamato l’ortolano si accerta il furto e si procede all’arresto. Maria si dichiarerà estranea alla cosa perché proveniente da Pesaro. Le due giovani sostengono che non potevano mangiare per mancanza di denaro e quella notte, dichiara Vittoria, “io e la Filomena avevamo molta fame”, da qui la decisione delle due ragazze, che abitano con le famiglie nello stesso fabbricato, di uscire alla ricerca di qualcosa. Ma indipendentemente dal furto le tre hanno violato i precetti penali che le erano stati impartiti: sono uscite di notte. La vicenda passa al Tribunale ecclesiastico. Le donne sono considerate incorreggibili e negli interrogatori ci si limita a ricordare i precetti impartiti, a ricostruire i precedenti delle tre e a verificarne la fama presso alcuni vicini. Maria è nota, le altre due nonostante la giovane età si sono già segnalate alla giustizia sia laica che ecclesiastica. Vittoria è già stata 4 o 5 volte nelle carceri vescovili e rilasciata con precetto, nel 1851, a 14 anni era già stata imputata per ingiurie verbali e condannata dal governo alla ritrattazione. Un mese dopo è ancora carcerata 15 giorni sempre per ingiurie verbali e l’anno successivo sempre imputata per ingiurie aveva visto sospeso il procedimento per “indulto sovrano”. Filomena è stata carcerata poco più di un anno prima dalla polizia per “furto di erbaggi”, ma era stata rilasciata ed il processo sospeso per “difetto di prova”, anch’essa è stata carcerata e precettata più volte dalla Curia. Dopo poco più di un mese di istruttoria si pubblicano gli atti e le tre miserabili ricorrono per le difese al difensore d’ufficio. La memoria difensiva consegnata il 12 maggio si appella alle colpe dei genitori, alla fame, alla mancanza d’istruzione e confida nella “clemenza evangelica ” dei giudici. La sentenza è di riconosciuta colpevolezza per lo “spreto dei precetti”, ma al posto dei minacciati 7 anni le tre vengono condannate a 2 anni di reclusione al S. Michele di Roma.

Tornando ai militari, va rilevato che non mancano donne che, come Agostina, chiedono il certificato di Buona Condotta per sposarsi con uno di loro, o altre che intentano una causa per stupro con pregnanza contro un carabiniere, segnali di una familiarizzazione che comunque appare difficile. La frequentazione dei militari sembra restare la prerogativa di donne scandalose. Le dichiarazioni rilasciate dalle imputate, sembrano seguire un modello comune, lasciano intravedere o dichiarano la stabilità della relazione. Si lascia balenare ai giudici la speranza o la possibilità di un matrimonio cercando di rendere il tutto più rispettabile come fa Teresa quando viene interrogata a proposito dell’ennesima gravidanza. Queste relazioni sono viste con sospetto e punite duramente quando la scandalosità è palese o plateale come nel caso di Santa S. di San Costanzo condannata a 4 anni. Perché, scrive il canonico del paese: “…già precettata ha ripreso la sua laidissima e scandalosa vita, a segno tale che il giorno 19 aprile 1854 a vista di tutto il vicinato introdusse l’uno dopo l’altro vari soldati di finanza di pieno giorno, gli uni aspettando fuori della porta finché non sortiva l’altro.”

Certe situazioni possono anche portare ad intaccare le funzioni del militare, come l’undici ottobre 1822 quando, alle nove di notte, il piantone di Porta Marina viene sorpreso che “…teneva entro il corpo di guardia una donna di mala vitta chiamata Guagliarina la quale suddetta stava sul tavolaccio….”. Maria R. detta Quagliarina ha 34 anni, orfana di padre e madre, è vedova da circa 9 anni. Ha da poco cambiato Cura, ed abita e lavora, in cambio del vitto, in una vicina locanda. Interrogata poco meno di un anno prima, nel dicembre del 1821, dichiarava di abitare a S. Leonardo nella casa di un contadino “di cui non so il nome”. All’epoca, come professione, dichiarava di filare il bambage e fare i calzetti. Già nel 1821 la donna era inquisita per la violazioni di precetti. Carcerata, attende l’interrogatorio “ristretta da due mesi e 26 giorni”. L’arresto è avvenuto per ordine del comandante della fanteria di Linea a causa della lite con un soldato. La donna racconta che stava andando a riportare del bambage a una certa Maria che “vendeva il pane in un andito di casa Lanci dove in allora si vendeva il vino…”, quando un soldato entrando “…disse = non si può neppure passare accidenti alle puttane e quante se ne trovano = e datomi un urtone io mi rivoltai…e gli risposi = come quelle che tratti tu =”. Per la risposta riceve un pugno. Ma Maria reagisce, con il fuso del bambage, colpendo il soldato sul labbro. Un errore imperdonabile per una donna di cattiva fama che dovrà giustificare il fatto di essere uscita di casa nonostante il precetto e l’essersi trovata nelle adiacenze di un osteria. La reazione dei militari è immediata. E’ arrestata quasi subito da un soldato del corpo di guardia che presidia la piazza principale. E’ condotta alla Granguardia e da lì alle carceri vescovili. La donna è stata carcerata altre volte, si difende dicendo che se ha trasgredito “…non è stato per cattiva volontà , ma per il bisogno perché dovendo guadagnare da vivere sono costretta a sortir di casa per cercare i lavori e riportarli, e nelle bettole ci sono andata qualche volta a prendere il vino perché non ho maniera di mandarlo a prendere da altri essendo miserabile.” Scarcerata viene arrestata nuovamente la notte del 31 agosto alle 3 e mezza in una bettola vicino a Pt. Marina seduta su una panca che cantava con diverse persone. Riarrestata, come abbiamo visto all’inizio, nell’ottobre del 1822 per la vicenda del posto di Guardia, è perseguita di nuovo nel 1823. Questa volta viene presa dai carabinieri, a notte appena iniziata, perché vagava pur essendo precettata. La vedova, che abita nella casa di Domenica detta “Mastellina”, si giustifica dicendo che era andata dalla cognata a prendere il lavoro di filatura. Dopo alcuni giorni di carcere viene rilasciata col rinnovo del precetto e “…l’obbligo di esibire per tre mesi consecutivi l’attestato del confessore della confessione fatta”. Maria è anche una donna che per vivere compie piccoli furti, come quello commesso il 16 agosto 1823, quando viene arrestata in flagranza di furto semplice di un lenzuolo. Dopo poco più di un anno, il 12 ottobre1824, la donna è nuovamente carcerata perché sorpresa con il soldato di guardia a Pt. Marina. In carcere attende fino al 21 dicembre per poter raccontare la sua versione dei fatti. “Ero andata ad acciaccare le mandorle da Raffaele Z. ed erano partite le padrone pochi minuti prima lasciandomi ad assistere finché ritornavano, ma siccome il luogo dove si acciaccano le mandorle era vicino al corpo di guardia di Pt. Marina, così io in quel momento mi posi a sedere sull’istesso banco dove siede il soldato, il quale era tornato da bere ed era una ora e mezza di notte quando sopraggiunse il sergente…” Il precetto viene rinnovato.

La solitudine dell’uomo e sempre “meno sola” di quella della donna grazie al maggiore sostegno familiare, sociale o istituzionale. Per la donna è diverso. La solitudine diventa quasi sempre solitudine sociale, difficoltà di sostentamento e se malvista o di cattiva fama, essa rischia di essere esclusa dal sostegno caritativo-assistenziale, non solo delle parrocchie, ma in generale, compresa l’assistenza ospedaliera gratuita alla quale si accede sulla base del Certificato di Buoni Costumi e Miserabilità rilasciato dal parroco. Per lei solo raramente esiste l’aiuto di qualche religioso, come quel gesuita che, a detta della Quagliarina, l’aiuta nel 1822 a pagare un affitto. Sostegni di cui non troviamo che rare, e sospette tracce. Per la donna di malaffare il rientro nel sistema caritativo avviene solo con il ravvedimento e l’ingresso in strutture di recupero simili al carcere. Per l’uomo rimasto solo è anche più facile risposarsi in età avanzata. A volte riesce a farlo anche con le giovinette, sfidando la riprovazione o l’ilarità che il matrimonio diseguale spesso suscita.

Se l’universo in aumento degli uomini soli è simboleggiato dal militare, quello più vasto delle donne lo è dalla vedova. Ad essa si aggiungono sempre più numerose nubili e coniugate che vivono lontane dalla famiglia o che ne sono prive. La società ottocentesca è turbata da un fenomeno, nuovo ed ampio, di cui prende coscienza man mano con l’avanzare e il diffondersi delle statistiche. Le donne, nonostante che alla nascita siano inferiori di numero e nonostante l’alta mortalità da parto, sono in soprannumero. Il numero delle vedove e delle nubili supera quello di celibi e vedovi. Questo fenomeno viene recepito dalle autorità come sintomo di una situazione sociale malsana. La donna sola è l’antimodello della donna ideale, la sua identità sociale è incerta. Può dirigere una famiglia, contrariamente ad una moglie. E’ costretta a gestire un patrimonio o al contrario a inserirsi con difficoltà in un mercato del lavoro che le offre misere prospettive. Una professione, il servire in casa d’altri, diventa lavoro svalutato. Quasi un monopolio per donne sole, quando nel corso del secolo la servitù, da lavoro maschile presso i ceti aristocratici, diventa servitù di massa alla distinzione borghese emergente. La solitudine femminile costituisce un problema storiografico poco esplorato, rispetto alla sua specificità. Due sono gli approcci prevalsi nella ricerca. Il primo ha definito il suo campo d’indagine in base allo stato civile, analizzando la solitudine come assenza dello stato matrimoniale e individuando la gamma di possibilità e l’immagine sociale consentite. Un secondo approccio punta l’attenzione sulle donne che si trovano a vivere fuori di qualsiasi potestà maschile all’interno del nucleo familiare. Per le finalità del nostro studio abbiamo trovato più interessante curare maggiormente questo secondo, e meno usuale, approccio. E’ evidente infatti che le donne sole dal punto di vista dello stato civile possono poi trovarsi a vivere in contesti familiari molto diversi. Invece dal punto di vista dell’allarme sociale e della scandalosità potenziale è la donna indipendente che suscita la maggiore preoccupazione. Vedove e nubili che ricoprono il ruolo di capofamiglia, donne conviventi in aggregati non parentali o solitarie, donne separate più o meno stabilmente dal marito, vedove bianche, costrette a supplire al ruolo maschile per le cause più varie.. “Donne senza uomini” che subiscono più di altri un processo di indebolimento economico e sociale, ma che nello stesso tempo esercitano nei fatti funzioni e poteri tradizionalmente preclusi al loro sesso. E’ evidente come la diffusione di questi comportamenti possa contribuire a cambiare il costume e come questa fuoriuscita dai ruoli tradizionali possa modificare e far maturare una diversa “immagine di sé ” e del proprio ruolo. Ovviamente un fenomeno estremamente diversificate a seconda del luogo e delle classi sociali
SCHEDA:Donne e struttura familiare a Fano.
La nostra analisi condotta su dati di poco precedenti la restaurazione (1812), conferma un quadro articolato di questa realtà. Studiando circa l’80% della popolazione delle parrocchie di campagna e il 47 % di quelle della città, abbiamo svolto una analisi della professione e sesso del capofamiglia presunto (vale a dire la figura sembrava trainante dal punto di vista economico). Ne risulterebbe che su 1.618 aggregati domestici, 179 fanno riferimento a donne. Un 11% significativo. Ma più interessante è la lettura dei dati analitici relativi ad alcune parrocchie e settori sociali. Intanto il dato città e campagna, rispettivamente 18,2 e 6,1%. Tra le diverse classi sociali emerge una certa consistenza del fenomeno tra coloro che si dichiarano Possidenti (9%) e che si dividono equamente tra città e campagna. Dato sicuramente sottostimato, visto che si può ipotizzare un relativo benessere almeno per una parte di coloro che non dichiarano alcuna professione (circa il 21% del totale delle donne capofamiglia). I dati confermano l’infimo peso delle famiglie a guida femminile tra i mezzadri, 7 su 642 (1%), dove c’è sempre un uomo in grado di diventare un nuovo capofamiglia. Ben diversa la situazione tra coloro che si dichiarano casanolanti o giornalieri in campagna, uno strato debole che conta 34 nuclei a giuda femminile su 237 (14,3%). Nell’ambito di chi dichiara attività artigianali o manifatturiere, una realtà quasi totalmente cittadina a parte le ville, la percentuale femminile sale considerevolmente, passando al 22,3 % (76 su 340), dato significativo perché sottolinea ancora una volta la difficoltà della donna solitaria o con persone carico. Le donne sono la scala più infima della categoria, in 63 casi (18,5%) si dichiarano filatrici. Il che significa che, al massimo dell’inserimento lavorativo, combinano lavoro a domicilio con altre attività legate alle “faccende da donna”.
Non particolarmente significativo il dato del commercio, l’13,1%. Anche se si tratta di professioni che consentono una elevata mobilità, come il commercio ambulante o permettono contatti continui con uomini. Professioni quindi al centro dei sospetti. Solo 3 casi su 28 ci evidenziano come nonostante l’elevato numero di donne che lo svolgono, il lavoro di servizio mantiene un carattere maschile quando può permettere di mantenere più persone o il formarsi attorno ad un servitore di nuclei familiari a caratterizzazione servile. La totalità delle serve vivono in casa dei padroni e sotto la loro tutela. Una ostetrica, una maestra artigiana ed una maestra dei fanciulli rappresentano il 15,7% degli aggregati che fanno riferimento alle professioni. E’ evidente come i nuclei che presentano un prevalere femminile sono molto vari per dimensione, composizione e dislocazione. Se si escludono i ricchi, dove attorno ad una donna possono aggregarsi numerosi conviventi non parenti o appartenenti al personale di servizio, per i poveri si tratta in genere di aggregati formati da solitarie, da nuclei senza struttura o formati da una vedova coi figli. L’analisi della parrocchia di S. Paterniano, può essere rappresentativa per la conoscenza dei ceti popolari dato che contiene le tre realtà di città, borgo e campagna.
Escludiamo le donne benestanti per le quali a decidere dell’aggregato e della solitudine sono i problemi relativi alle strategie di alleanza familiare e trasmissione patrimoniale. Restano le donne che basano il loro sostentamento sul lavoro, per queste restare sola e capofamiglia è un destino che le colloca ai gradini più bassi della scala economica. Una donna impegnata in una dura lotta per la sopravvivenza, che generalmente è concentrata nelle zone abitative più povere e popolari, nelle peggiori condizioni abitative. Qui la difesa della “buona reputazione”, dalla maldicenza delle donne o dall’arroganza degli uomini, non è facile. La pratica del meretricio, più o meno occasionale, si presenta come una delle possibili strade da percorrere per sopravvivere. Allora il sospetto dimostra la sua fondatezza. Spesso è una donna sola la protagonista dell’accusa contro un altra donna sola. Maria è una vedova quarantenne che “fa la lavandara e altri lavori da donna”. Nell’inverno del 1826 va in casa della Teresa detta Prina, che con il marito ha messo su un osteria, “..a servirli colla sola offerta di darmi da mangiare e la sera me ne andavo a dormire a casa mia.” La carcerazione del marito di Teresa rende necessaria, nella casa-osteria, una presenza permanente da parte della serva. Così essa ne penetra i segreti e successivamente fa un resoconto colorito del comportamento della padrona. L’ha vista trattare con diversi uomini che “gradivano di fotterla” e che ha ” veduti insieme e a soli nel letto”. Fra questi uomini, riferisce, “..so che l’ha trattata come propria più di due e tre volte il tenente comandante della linea, di cui ignoro il nome , ma che ha per moglie la Romana signora Teresa”. Maria avanzerà il sospetto che l’uomo abbia donato i cinque paoli necessari a ritirare dei coralli dati in pegno. L’ombra del sospetto mercenariato viene fatta balenare su questa donna che, “per tre giorni e tre notti trattiene un Dragone in casa” e alla quale, nel corso dei suoi commerci carnali con un Brigadiere di posta, “…una sera si ruppero i cavalletti del letto..” Racconti che la vedova a servizio deve aver fatto circolare dopo la sua rottura con Teresa. Non conosciamo le cause di questa rottura tra le due donne. E’ possibile che sia avvenuta per motivi apparentemente futili . Una testimone riferisce che Maria “..un giorno brontolando di Teresa la caratterizzo per porca, putana, buzurona, perché a suo dire non poté avere da essa un mazzo di carte.” Le voci alimentano i sospetti e i timori delle mogli del vicinato a cominciare da Maria, moglie di “Mengone il limonaro”, che sulla base di questi sospetti sporge la querela al Tribunale ecclesiastico. Il marito “non più tratta e rispetta la moglie”, la donna è esasperata. Chiede l’intervento dell’autorità per ristabilire l’ordine familiare e perché, affermazione rarissima da incontrare nelle pagine processuali, “..l’ho amato sempre e lo amo…” La contrada Gasparoli è messa in subbuglio. Il sospetto è alimentato anche dal fatto che, come dice la vicina Cattarina, “…con mia meraviglia ho veduto che detta Teresa sovviene il marito in carcere portandogli robba da mangiare e bocce di vino, e so per detto di Antonia moglie di N. muratore vicino di casa che la Teresa spesso muscina il grano ne si sa come possa averlo.” Teresa sta cercando di tirare avanti l’improvvisata osteria casalinga mantenendo, oltre a se e al marito, carcerato per furto, anche la madre e il fratello “..che non altro ha mestiere che di fare le Trapole ed il mestiere del vagabondo..”. E’ proprio questa osteria improvvisata, dove vari mariti vanno a bere e a giocare a carte, che fa scatenare la reazione delle mogli. Teresa “la Partitella” inscena una cagnara sulla porta della casa-osteria recuperando il marito che vi si era recato con il limonaro ed altri “per giocare un mezzo di vino”. Indipendentemente dai suoi esiti e dall’effettiva provenienza delle entrate di Teresa, la storia evidenzia l’effetto perturbativo che in una contrada o uno stradino la cattiva fama poteva innescare. Il fatto che spesso siano altri soggetti deboli ad esercitare la calunnia o la delazione non deve meravigliare. Nel sistema basato sulla voce pubblica e sulla pubblica fama, un soggetto debole può facilmente correre il rischio di essere considerato complice di un vicino di casa o di una padrona sospetta. Un sistema che produce una massa notevole di informazioni che l’istituzione vaglia e utilizza ma che spesso si rivelano infondate o manipolate. Frequenti sono i casi in cui sono delle vedove ad attirare l’attenzione del parroco o della curia su altre vedove. La prostituzione in questo periodo avviene principalmente nella propria casa – camera ed è gestita personalmente dalla donna. Solo in occasione di Fiere o feste in altre città le meretrici sembrano riunirsi in gruppi e appoggiarsi a locande o a terzi. In questa realtà la donna più anziana poteva essere quella figura di riferimento materno la cui presenza sembra una delle costanti della storia della prostituzione. Lenone come Smeralda non sono frequenti e segnalano comunque, più che la presenza di uno sfruttamento organizzato della prostituzione, l’unica possibile linea di comportamento per chi, avanzando l’età e non mutando condizione, cerca di sopravvivere approfittando di un’azione di supporto e intermediazione. Data la scarsa consistenza di uno sfruttamento organizzato, almeno per quelli che sono gli ambiti della nostra ricerca, l’accusa di Lenocinio era rivolta all’intermediazione e al favoreggiamento della prostituzione opera in cui si distinguevano madri, prostitute anziane, mariti, osti e soprattutto vedove. Per queste concedere l’uso della propria camera, per compiere “atti disonesti”, poteva essere un modo per arrotondare e sbarcare il lunario. La vedova era quindi guardata con sospetto, non solo perché facile preda di promesse di matrimonio non mantenute, o fonte di vita scandalosa, ma anche come potenziale favoreggiatrice degli amori adulterini e/o mercenari. La Pasquina è una di queste sospettate. Il suo stile di vita alimenta tale sospetto: i figli bestemmiano e lei frequenta “li caffè”. Si vocifera che “tenga mano a persone di mala vita facendo così la ruffiana e servendosene anche casa sua…” La donna, che è già stata precettata, sostiene che scandalosa Maria non frequenta più la sua camera e se entra nel palazzo è perché va da un calzolaio e all’osteria del Tognaccia che sono nello stesso stabile. Il sospetto è che sua la camera venga usata dalla presunta meretrice per incontrarsi con vari forestieri e con il Capo Tamburo. A Pasquina verrà rinnovato il precetto di non ricevere in casa uomini e donne sposate, di non prestare mano ad illecite corrispondenze sotto pena del carcere e di ritornare nella sua Patria “…alla prima occasione che i fratelli passassero per Fano.” L’altra vedova, Maria, ha 35 anni, abita nella parrocchia di S. Leonardo e si dichiara di professione Tricca. Arrestata in osteria era già stata carcerata e precetta un mese e mezzo prima per la frequentazione di un certo Domenico “lo zoppo”. Dice di recarsi dalla Pasquina perché le servono “vesti e zinali”. L’accusa nei suoi confronti è serrata. Si cerca la prova della violazione del precetto, e cioè se abbia mangiato con Domenico, uomo sposato. Maria vacilla, prima nega, poi riconosce che: “..mi fu offerto e ricevetti un pezzo di pane di biada con un pezzo di finocchi che mangiai alla presenza di tutti.” Con lo stesso uomo dice di aver mantenuto rapporti legati al denaro (perciò sempre sospetti…), un prestito la cui restituzione fornisce l’occasione per nuovi incontri alimentando la reazione e le minacce di scaldinate da parte di moglie e figlio. Anche lei se la caverà con il precetto, che oltre alle solite cose, prevede il divieto “a non trattenersi nell’osteria del Sorgio ne mai in alcuna altra osteria.”

2.4 – Lo stile di vita: Geltrude
“Non è già che gli uomini vadano in cerca di lei, ma essa chiama e cimenta e provoca gli uomini a malaffare ed è perciò che frequenta tutte le osterie , io stessa la ho vista bere e mangiare per compagnia di chi essa vi trova e vuole per suo drudo, e pubblicamente dice di voler dare la roba sua, intendendo il suo corpo a chi le pare e piace… Anzi molte volte si accompagna con taluno, che quindi lascerà per unirsi all’altro che forse le ripromette maggior compenso.”
In queste parole di una moglie, che lotta per strappare il marito dalla seduzione di una giovane di facili costumi, abbiamo la descrizione di alcuni degli elementi considerati costitutivi e tipici dello “stile di vita scandaloso” e su questi ritorneremo. Nella storia di Geltrude non sono evidenti solo questi elementi, ma anche il carattere dirompente e perturbativo che questa assume quando la protagonista è parte della comunità o non è stata ancora emarginata.
Geltrude T. è giovane e ribelle. Ha 19 anni, abita con la famiglia e si dichiara tessara, una professione che non la colloca proprio all’ultimo gradino del lavoro femminile. Con lei percorriamo tutte le tappe del controllo sulla sessualità.
Il padre Sabbatino, nonostante che la bastoni, non sembra in grado di contenerne il comportamento, altrettanto vale per la madre le cui sgridate sembrano inefficaci. I genitori sono anziani se, come deduciamo dalle nostre ricerche, la madre è la stessa Domenica, ormai cinquantacinquenne, ex esposta, che viene interrogata nel 1828 perché sospettata di “fare da ruffuana” alle ragazze del Conservatorio. Una famiglia, forse poco convinta nel suo ruolo. Abitano nella cura della Cattedrale in una casa adiacente al S. Michele e si sospetta che la Geltrude, quando la madre dorme, usi la casa per le sue gesta. Tuttavia una famiglia per la quale ci sono dei vicini pronti a testimoniare circa l’adempimento del dovere di riprendere la figlia. Geltrude, per il suo ”immodesto e licenzioso” tenore di vita, deve assoggettarsi alla triplice ammonizione, ma data l’inefficacia di questa il curato sollecita l’intervento della Curia ed il precetto. Quest’ultimo arriva puntuale dopo pochi giorni ed è quello impartito solitamente alle minorenni: il divieto di non vagare, ne di giorno ne di notte, senza essere accompagnata dalla genitrice oltre che a vivere onestamente e cristianamente. Si minacciano anche i soliti tre anni di reclusione. Geltrude, stando al verbale, promette di rispettare il precetto. Tuttavia il suo atteggiamento, in quello e nei successivi interrogatori, sarà un pò diverso dal solito. Essa infatti non farà mancare le suppliche ma il suo contegno appare fermo, dignitoso e a tratti provocatorio. Collabora ma con la strategia di coinvolgere un numero elevato di persone. Forse per sminuire le sue colpe o per smascherare una rete di relazioni, dalla quale solo lei emerge e per la quale, solo lei rischia di pagare. Dice i nomi delle persone con le quali ha avuto commercio carnale o che sono corresponsabili. Parla della casa della Lucia, detta la Taracca, dove è stata iniziata al commercio carnale con diversi giovani fanesi dai quali ha ricevuto ”pochi bajocchi, venti o trenta”. Racconta dei rapporti con i Finanzieri a cavallo, la cui caserma, vicino a Porta Marina, è posta di fronte alla bottega del falegname sessantenne Michele C. che le fungerebbe da Ruffiano. E anche la moglie dello stesso avrebbe l’amicizia di un finanziere.
Dai vari interrogatori, che coinvolgono una ventina di testimoni, emerge una rete di relazioni e rapporti uniti da un’unica costante: scaricare su Geltrude la responsabilità dei fatti. Lei è raramente reticente e reagisce malamente quando le vengono attribuite cose che non ha fatto. Accusata di essere andata con vari uomini per la Contrada del Campo Santo reagisce malamente. ”Come le ho detto le altre mancanze direi anche questa se fosse vera.”
Precettata per la prima volta il 21 luglio 1843, viene nuovamente arrestata il 4 gennaio 1844. Infatti i Carabinieri Pontifici la trovano vagare di notte, vicino alla pescheria, in spreto di precetto. Interrogata il 22, dichiara di aver ricevuto” qualche mezzo paolo per compiere degli atti turpi”. Invia una supplica al vescovo ed ottiene la scarcerazione con il rinnovo del precetto. Ma ormai è sorvegliata con attenzione e gli eventi precipitano.
Il 20 marzo, il curato della cattedrale riattira l’attenzione sul suo ”libertinaggio”. Il momento è critico e sembra muoversi anche la famiglia. Il deficit dell’autorità genitoriale chiama in causa le altre figure maschili della famiglia. Il fratello Antonio, militare di Linea ad Ancona, si dichiara disposto a condurla con lui e a sistemarla sotto la sua responsabilità.
Sembra quindi profilarsi una soluzione che, con l’allontanamento dalla comunità, accontenta le esigenze della pubblica moralità e della rieducazione. Su queste premesse viene decretato due giorni dopo un nuovo precetto che prevede l’esilio, una rapida partenza e di ”non più recarsi in questa città e diocesi ”sotto pena di 7 anni di reclusione. Ma succede un imprevisto. Geltrude rifiuta di seguire il fratello. Le conseguenze sono immediate, il 25 “riuscendo inefficaci tali mezzi indiretti” è arrestata e si inizia l’ascolto dei numerosi testimoni di un processo che sicuramente non passa inosservato.
L’esilio era la modalità forse più frequente ed indolore per punire la meretrice, perché Geltrude lo rifiuta ? Non lo sapremo mai o forse lo possiamo intuire… L’esame dei testimoni inizia e ci fornisce la carrellata dei presunti clienti o delle conoscenti; la vicina sessantaduenne che l’ha vista entrare con uomini nella casa familiare o quella che l’ha vista parlare con Vernaccina.
Vernaccina, è il soprannome di Antonio, l’uomo che la moglie Angela vuole difendere con le unghie e i denti. Sicuramente è stata questa la goccia decisiva che ha fatto traboccare il vaso e precipitare gli eventi.
Geltrude non è più solo una donna che da tre anni cerca di “tirare al male le persone” ma è coinvolta, da protagonista, nel dramma familiare di un adulterio.
Angela è più vecchia, nata ad Orciano, fa ”le faccende di casa”. Ciò significa che l’economia familiare gli permette di evitare di integrare il reddito con un lavoro a domicilio. Geltrude le avrebbe sedotto il marito “..al quale teneva dietro se andava nelle osterie, nella strada ed anche in chiesa…”. La donna riferisce anche un fatto:”…nell’estate passata mio marito di notte era per la strada di Uffreducci e si mise a fare un bisogno corporale in disparte, la T. gli si appressò, gli chiese denaro e gli mise la mano in saccoccia……mio marito la scaccio…”. Peccato che il testimone da lei citato, Massimo detto Minestra, racconta che i due sulle mura di Uffreducci erano insieme e non sembrava per caso.
Le due donne si controllano a vicenda. Una notte, in strada, ha luogo uno scambio d’insulti, la Geltrude insegue Angela ”…pel Corso fino a casa con dei sassi in mano che le scagliò contro presso la strada del Vescovado.” E tutto ciò sotto gli occhi di “una moltitudine di popolo”. Il giorno prima dell’ultimo arresto Geltrude è stata bastonata, per gelosia, da dei giovani fanesi. Con costoro era stata a mangiare in osteria, ma nel corso della serata li aveva lasciati per unirsi a dei finanzieri.
Ormai il Tribunale scava nel passato della ragazza. Il Tenente capo dei soldati provinciali “dava tre Paoli ogni volta compresa però la lavatura de’ panni, Paolo “canapino e filarmonico” racconta di una ricreazione fatta in mare dai suoi colleghi del ottonato “…che stettero seco lei allegri, che mangiarono e che anzi nel troppo mangiare vomitarono…” La donna farà luce su questi episodi portando la sua verità che gli altri vogliono nascondere. Con il filarmonico ha avuto commercio carnale di sera sulle mura del Suffragio, quella volta in barca ha trattato con tre uomini tra cui Andrea il carrettiere. Torna ad illustrare i suoi rapporti con i finanzieri e l’uso della bottega del falegname Michele.
Le botteghe sembrano uno dei luoghi deputati a questa sessualità irregolare anche se tutti negano ciò, a partire dalla Saracca, dal profumiere Arsenio e dal barbiere Pietro. Si convocano anche i tre garzoni del falegname Vernaccina. A detta della giovane sarebbe stata la bottega il teatro delle pratiche disoneste e degli atti turpi commessi con Antonio. I due si conoscono dall’autunno 1843. “Sono stata pagata dal Vernaccina per questi commerci carnali e per tutto il tempo avrò avuto 30 paoli”. Ma l’uomo nega, sostiene di aver solo discorso e scherzato nella pubblica strada con la T.” Il suo luogo di lavoro è vicino all’osteria di S. Domenico dove “…essa sovente andava a comprare il vino e 2 o 3 volte è stata è stata nella bottega per ordinare una stecca da busto….”
Verso la fine di maggio si arriva al giudizio. La giovane, priva di mezzi, viene difesa d’ufficio dal Procuratore dei Poveri del quale resta la memoria difensiva. Questo cerca di evidenziare la stravaganza del comportamento processuale della ragazza, le cui rivelazioni non sono verificabili. Inoltre essa è minore di età e la sua confessione sotto giuramento non ha nessun valore. Tuttavia, il 6 luglio, Geltrude sarà condannata alla pena più lieve tra quelle preannunciate nei precetti. Tre anni di reclusione al S. Michele di Roma.
Sembrerebbe tutto finito, ma tre anni dopo, nella notte del 19 maggio 1847, i carabinieri pontifici fanno irruzione nella camera di Antonio detto Vernaccina e lo arrestano assieme al calzolaio Francesco detto “Broda”, Celeste “la zoppa” e …Geltrude.
La vicina Cattarina racconta: ”..che la moglie del Vernaccina è morta da circa un mese piena di rammarico”, il marito non tornava a casa. Dopo la morte la T. si è installata in casa, vi pranza e una volta “ubriaca andò a letto”. Geltrude non apre al padre che la cerca. Tra i quattro il rapporto ha alti e bassi. Un giorno il Vernaccina ”…bastonò la T. a motivo che nel giorno gli era stato riferito d’esser stata in compagnia di altri uomini nell’osteria di S. Patrignano dove si era ubriacata.” I quattro arrestati, supplicano la scarcerazione, Antonio dal “…fondo del carcere dove da più di un mese geme col solo pasto di pane ed acqua…” La storia è ricominciata. Tutti sono precettati a non frequentarsi, non vagare per la città ecc. Geltrde è posta sotto la custodia del padre, Celeste alla torna alla custodia del marito che aveva abbandonato e della madre.
Negli anni successivi non abbiamo trovato altre tracce di Geltrude, ma la sua storia sottolinea la difficoltà per la presunta meretrice di un ritorno alla normalità anche quando reso possibile dallo “stato libero” di entrambi gli amanti.
Tuttavia Geltrude e con lei alcune altre donne, non ci appare solo una minorenne inquieta, e ci viene da chiederci con Augusta Palombarini, se anche nelle Marche con il loro quadro apparentemente statico fino alla fine del secolo, non comincino ad emergere donne dai comportamenti trasgressivi e spregiudicati. Non è solo le donne borghesi o aristocratiche, che già presentano una relativa disponibilità sessuale, ma anche popolane che, come nel caso dell’americana Mary Rogers, operaia, nubile, indipendente economicamente e sessualmente, vengono percepite dalla comunità non più come vittime ma come pericolo.

Alcuni elementi e comportamenti venivano considerati indicatori dello stile di vita della donna disonesta. In un ambiente sociale come quello in cui si muovono i nostri protagonisti ogni piccolo e inspiegabile mutamento di condizioni di vita, quasi sempre miserabili, genera sospetto. Ci si chiede come mai Teresa la Prina possa permettersi di portare al marito carcerato “da mangiare e bocce di vino”. Nei quartieri popolari le prostitute si distinguevano spesso perché, nonostante la precarietà delle entrate vivevano meglio delle donne del vicinato e avevano spesso una disponibilità di denaro comparabile a quella degli uomini.
La frequentazione delle osterie, il bere ed il gozzovigliare sono visti come simboli del malcostume, di una dissipazione immotivata ed immorale ma anche della condanna di quelle donne che si azzardano ad equipararsi agli uomini. Forse il bere e la socialità dell’osteria erano una prerogativa maschile che sempre più viene violata. Tuttavia è difficile pensare che questi fossero luoghi esclusivi degli uomini o che non fosse abitudine diffusa il frequentarli. Le bettole incontrate sono numerose, e la loro frequentazione non sembra monopolio esclusivo delle donne di malaffare. Ciò che è malvisto è il farsi offrire o il palesare una relazione come nel caso dell’amicizia tra Antonio R., casanolante di Bellocchi e la vicina di casa Fortunata. Lui nella mattinata aveva fatto in casa delle cresce e le aveva portate nella bettola di Sabatina per mangiarle con la donna. La moglie, che si lagna della frequentazione, li interrompe apostrofando il marito con queste parole: ”Per la moglie e figli fai la crescia di biada e per la puttana di fiore e ben condite”. Segue il consueto scambio d’insulti e sassate tra le due donne.
L’osteria è comunque un luogo tipico di trasgressione dei precetti, soprattutto nei primi decenni della restaurazione.
Clara detta la Lughese, a causa della provenienza del padre Virgilio, ha 22 anni. Orfana della madre, abita in famiglia. Secondo il parroco di S. Cristoforo “..nel fare la pubblica meretrice, si è resa anzi sempre più petulante e scandalosa coll’esser causa di pianto delle infelici maritate tradite dai loro consorti e dai mariti crudelmente trattate, come parecchie hanno fatto da me ricorso…”.Viene arrestata, per “spreto del precetto” dato che l’anno prima le era stato ordinato di non uscire di casa dopo l’ave Maria. Ma alle 1,5 di notte, viene “sorpresa a gozzovigliare nella bettola di Angela S., in compagnia di alcuni militari”. La giovane si difenderà dicendo che “essendo stata molti mesi a Pesaro” pensava che il precetto fosse decaduto.
La vicinanza dell’abitazione all’osteria, è per Agostina la scusante della violazione del precetto di non uscire di casa. All’osteria, aveva comprato una minestra di fagioli da mangiare a casa. Ma questi erano particolarmente salati…, di qui la necessità di tornare nella bettola. La giovane cerca di sminuire la colpa, “perché per essere entrata nella Bettola suindicata, che resta attaccata alla porta della mia casa per prendere e bevere mezzo bajocco di vino non sia un delitto…” Più volte precettata è già stata arrestata tre volte negli ultimi quattro anni. Viene considerata “…prostituta” e, secondo il verbale d’arresto, era dentro l’osteria a “giocare e bevere con dei soldati”. La giovane, orfana di padre ha 21 anni ed abita con la madre a S. Tommaso. Dopo aver implorato sarà nuovamente precettata.
L’eccessiva dedizione al vino diventa un indizio che pesa sul giudizio morale delle inquisite. E tuttavia andrebbe analizzato il ruolo che questo ha nelle abitudini e nell’alimentazione popolare. La propensione all’alcol è associata, in questo secolo di trasformazioni, all’immoralità della classe operaia. Anche in questo l’ottocento, segna a livello europeo un momento di passaggio sia materiale che culturale dall’immagine dell’ubriacone a quella dell’alcolizzato. Dall’ubriacatura legata alle occasioni al consumo quotidiano e nascosto. Uno scivolamento dalla sfera pubblica a quella privata legato agli usi delle nuove classi borghese e proletaria ed alla fabbricazione e calo dei prezzi dei distillati che favorisce l’aumento del consumo in città e campagna. Il diffondersi dell’acquavite è documentato anche in ambito fanese, sia per lo sviluppo di una produzione locale che per le testimonianze ritrovate.
Una consumatrice è la venticinquenne di S. Marco, Margherita T. , che non solo ha commerci carnali coi militari, ma crea scalpore per il comportamento che tiene con questi. Ha già avuto precedenti, perché, racconta la giovane, ha difeso la madre oltraggiata dal direttore di polizia. Aggiunge di esser stata carcerata “per invidia” di un carabiniere e “ …per non aver voluto acconsentire alle sue voglie disoneste”. Margherita tratta i militari di linea “…a fine di contrarre matrimonio”, come dice lei e racconta episodi di questa frequentazione. Le modalità sono plateali e non possono che essere notate. Arrestata nel febbraio del 1823, dice di esser stata a ballare fuori di Pt. Giulia in una casa dove erano dei soldati, “…e questa mattina sono uscita di buon ora di casa a bere l’acqua vita col suddetto compagno d’ Emidio che me l’ha pagata”. E’ precettata, tra le altre cose, a non trattare “soldati di qualsiasi forze” e la madre a custodirla. Le due donne, in difficoltà a trovare un alloggio, ci riescono a condizione di non ricevere militari. Ma la cosa è durata poco, come racconta a maggio l’uomo che le ospita. Dopo una ventina di giorni i soldati sono ammessi in casa. Se ne segnala uno “..visto fare… scherzi indecentissimi alla donna”. Lo stesso militare porta delle vivande a Margherita e questa, qualche volta, cucina per lui. Lo scandalo è massimo quando lei “…pubblicamente trasporta il cucinato come successo l’altro giorno in cui furono cucinate le fave miste colla pulenta, ed essa stessa M. portò tale minestra nel Corpo di Guardia…”. La conseguenza è lieve dato che le due sono solo invitate a lasciare la casa entro settembre.
La Pesarese Maria S., 36 anni nata a Roncaglia, è conosciuta per i suoi precedenti e verrà arrestata la sera, a letto con un uomo, nell’Albergo dei Tre Re. Fin dal giorno si fa notare girando vari locali. Una testimone, Rosa cinquantenne che tiene il caffè “per chi ci viene” l’ha vista andare a bere all’osteria di Bubini. Il cameriere della Posta dei Cavalli racconta che la Pesarese era ubriaca e baciò e abbracciò un uomo.

“La prostituta era una donna sola che racchiudeva in se un insieme di caratteristiche, indolenza, illegalità, immoralità e autonomia femminile che erano antitetiche alla rispettabilità borghese. La sua immagine era particolarmente allarmante per il convergere in un’unica figura di molti gruppi marginali: il vagabondo indigente, il criminale, il deviato sessuale e la donna.” La prostituta comprendeva in se questi aspetti esaltandoli nell’immaginario collettivo. Nell’immagine popolare la sua figura era legata alla miseria ed alla precarietà economica, risultato delle difficoltà e dell’indigenza ma anche del non avere un punto di arrivo stabile nella sua mobilità. Un comportamento criminale, non solo per i suoi legami sociali ma anche in rapporto alla sua devianza sessuale ed alla natura femminile. Lo stila di vita della meretrice vede negli orari un altro momento critico. Quando il suono delle campane annunciava l’ ave Maria e la fine del giorno, in città uomini e donne si rassegnavano a fatica Iniziava la notte con i suoi pericoli e le sue associazioni simboliche di buio e peccato. Tuttavia, una dimensione, le prime ore del buio, frequentata da tutti, con una certa familiarità e normalità mentre è raro trovare eventi che si svolgano a notte inoltrata. La vita notturna avviene entro le 3-4 di notte (le nostre 22-23). Una dimensione proibita alla donna scandalosa da tutti i precetti. Forse perché è la sua dimensione o semplicemente perché in queste ore il controllo è più difficile. Non è facile evitare di “vagare” di notte per chi è abituato ad un certo stile di vita e non è agevole un tale livello di esclusione dalla sociabilità quotidiana che si svolge all’interno della città.
In una dimensione di netto prevalere di un meretricio occasionale, confuso, volutamente o meno, con altre pratiche, un segno rivelatore della scandalosità diventa il verificarsi di una o più gravidanze. Svincolo decisivo della perdita o del recupero dell’onore la gravidanza mette in evidenza la qualità delle relazioni sociali e sessuali della donna. La differenza si nota nella stessa diversa rubricazione operata dal Tribunale: le donne sostenute da una famiglia nella richiesta di recupero dell’onore sono vittime che avanzano querela , le altre che non possono o non vogliono individuare il seduttore vengono perseguite d’ufficio. La gravidanza diventa il marchio di una colpa difficile da recuperare, un momento che può significare l’inizio di una discesa sociale e morale. Due rubricazioni diverse per uno stesso evento, nel primo caso “stupro con pregnanza”, con o senza promessa, nel secondo “pregnanza” o “disonesta pratica”. Il ripetersi delle gravidanze ingiustificate non farà che confermare la caduta morale della donna. Ma c’è anche un altro aspetto della gravidanza che ne fa un indicatore della scandalosità: ”l’ammirazione che suscita nei buoni”. Concetto vago e che si presta all’arbitraria interpretazione dell’autorità. La gravidanza deve restare un evento segreto, coinvolgere una cerchia ristretta di persone e anche la donna scandalosa deve attenersi a questa regola, unitamente alla conservazione del feto. Se priva di sostegni significativi, la donna, costretta a lavorare, fa difficoltà, soprattutto in città, a nascondere il suo stato e a non suscitare “ammirazione” e ciarle. Per molte donne povere questa difficoltà ed il rifiuto della caduta che la gravidanza genera sono alla base del tentativo d’infanticidio. Per la donna scandalosa non è così, sapendosi sotto controllo, cerca di attenersi alle regole per evitare conseguenze più gravi. Ma a volte, forse per reazione al controllo o per la difficoltà materiale di gestire la situazione, si genera una reazione della donna. Reazione vera, ma più spesso presunta e creata dalle aspettative delle agenzie di controllo. Allora la donna scandalosa sfida l’autorità esibendo la sua pancia, un adeguamento alla sua condizione e all’immagine che la pubblica voce sta definendo di lei..
Contrariamente a situazioni come quella romana, studiata da Margherita Pelaja, a Fano non abbiamo notato casi in cui la donna lotta per il suo diritto di madre e trattiene presso di se il bambino. Ci si adegua perfettamente alla norma dell’abbandono al brefotrofio S. Michele. Altre soluzioni richiederebbero l’unione di due condizioni, l’accettazione definitiva di una immagine scandalosa di se e la disponibilità e l’aiuto di un gruppo parentale. Diverso il caso della scandalosità che usufruisce di una copertura familiare. Qui la lotta è quella di far apparire, anche sfidando l’evidenza, ma puntando sulla tolleranza dell’autorità, legittimi i figli nati dal rapporto adulterino.
Il modo di parlare è visto come un altro indicatore della scandalosità. La donna scandalosa userebbe un linguaggio che la identifica. E’ difficile dire se ciò trovi un riscontro nella realtà. Nei Tribunali si usa il linguaggio e la modalità richiesta dall’istituzione o dalla necessità di garantirsi un esito processuale positivo. Sopravvivono tra le righe poche frasi e modi di esprimersi che ci appaiono veraci.
“Sono di carattere burlona e scherzo con tutti, …io fò la matta” dice la precettata Agata B., orfana ventiduenne, che abita da sola a S. Marco. Si definisce così per giustificare il fatto di ricevere in casa Pietro, il secondo uomo con cui amoreggia, “a fine di matrimonio”, nonostante le ammonizioni del parroco. Un modo di parlare colorito ma che non ci appare discostarsi di molto dal linguaggio colorito dei ceti popolari. Sarebbe da stupirsi del contrario visto il contesto di elevata integrazione con il loro ambiente sociale che queste donne mantengono. Ne il loro linguaggio appare più volgare di quello che subiscono. Come nel caso di Franca che mentre esce di notte per andare dalla nonna, incontra, vicino alla Liscia, alcuni uomini convinti che la ragazza si sia rinchiusa poco prima con un giovane nella carbonaia lì vicina. Alcuni la apostrofano “= gli puzzerà il culo di carbone a quella puttanaccia =…ed io risposi che dovevano conoscere prima le persone, ma essi insistendo sulla gonna allora bagnata, risposi per farli tacere, ma non già che fosse vero = ancorché l’avessi fatto, cosa volete? La voglio dare a chi mi pare e piace ed a te non te la voglio dare =”. Una frase, quest’ultima, che può apparire trasgressiva per l’immagine femminile che evoca, ma che dubitiamo fuoriesca troppo da concetti diffusi a livello popolare.
Per approfondire questa problematica occorrerebbe un confronto con i linguaggi utilizzati da uomini e donne che riempiono i fascicoli di altri archivi e tipologie di reato. Crediamo di escludere che la donna scandalosa sia portatrice di linguaggi e concetti trasgressivi, ma esistono sicuramente donne il cui linguaggio, oltre che il comportamento, può essere sovvertitore o percepito come tale.
Teresa detta Stinga è una vedova chiacchierata già da diversi anni, vivo il marito, per presunti adulteri. Di lei si parla nel 1832 anche a proposito della sua partecipazione a feste oscene organizzate in ambienti rispettabili. Ma forse perché gode di qualche protezione, non viene precettata fino al 1836. Motivo della misura è perché riceve in casa, a detta della vicina Vincenza, finanzieri e carabinieri “senza numero”. La stessa vicina ha udito la donna schiamazzare e bestemmiare, “ho inteso dire che quando sta giocando in casa della R., bestemmia come = per tutti i Santi = e sparla peggio di un uomo” “si dice che sia liberissima e sfrenata”. Per questa e per l’altra vicina Luigia, è motivo di “pensar male” che la vedova sta sola in casa “senza alcuna altra donna”. C’è da chiedersi quanto potesse essere diffuso, tra le donne il parlare “come un uomo”, ma in questo caso il messaggio è chiaro, questa donna inverte nel linguaggio il proprio ruolo sessuale.
Un linguaggio che non rispetta il ruolo sessuale, l’interiorizzazione e l’esternazione connessa al diritto di disporre del proprio corpo possono essere presenti in alcune donne scandalose. Forse veicolo e portatrici di una subcultura sessuale non conformista. Comunque un immagine che si definisce più in negativo che in positivo.
Quando è arrestata la presunta meretrice è irascibile o ironica. Come la giovane Elisabetta T. che, “con una sfrontatezza che irrita, iva dicendo, jersera, nell’atto che veniva condotta alle prigioni vescovili = farò un poco di compagnia all’Agostina =”. Ammonita dai poliziotti a cambiar vita e a lasciar perdere la compagnia della Quagliarina, “con motti sconci ed atti osceni derideva e beffeggiava chi l’aveva per bene avvertita…”
Uno stereotipo comune che troviamo assolutamente non confermato dalle nostre fonti è quello del legame tra la donna scandalosa e la criminalità. Quasi mai le donne da noi incontrate hanno precedenti penali di altro tipo, quando questi ci sono, le donne provengono da fasce sociali deboli dove una piccola criminalità era molto diffusa. Possiamo quasi supporre che “l’esercizio” del meretricio occasionale potesse essere una alternativa ad altri comportamenti criminali. La criminalità della donna scandalosa è quindi una criminalità sessuale. La presunzione di una sua tendenza al crimine, al furto o ad una vita di espedienti è data non tanto dalla scandalosità ma semmai dall’associazione povero – criminale. Andrebbe invece analizzato, attraverso lo studio di biografie maschili, il rapporto con gli ambienti sociali e i luoghi dove si sviluppavano le attività criminali più organizzate. La nostra impressione è che pur non escludendo l’esistenza di rapporti tra soggetti posti ai margini della società, il prevalere del carattere occasionale e non professionale della prostituzione sfavorisse lo sfruttamento organizzato in generale e quindi anche quello collegato alla criminalità.
E’ chiaro che le nostre considerazioni sono condizionate dal tipo di fonte utilizzato. Una attenta lettura dei processi svolti dal Tribunale laico costringerebbe sicuramente a parziali rettifiche di quanto detto sopra, oltre a chiarire i legami sopra accennati con la criminalità in genere. Siamo tuttavia convinti che i numeri abbiano un loro peso e che il livello di partecipazione di donne scandalose ad altre attività criminose non superi di molto quello a cui erano costrette larghe masse di miserabili.

2.5 – La fama: Domenica “la Barulla”
L’insieme dei comportamenti, la rispondenza maggiore o minore agli stereotipi della donna scandalosa componevano l’immagine pubblica della donna chiacchierata. La fama era la sintesi di quanto risultava dalla “pubblica voce”, condensato di ciarle, fatti ascoltati, calunnie e opinioni. Uomini e donne si confrontano continuamente con la fama rispettiva. Un elemento decisivo perché su di essa e non sui fatti si decidono la maggioranza degli esiti processuali. In una giustizia obliqua che non ha al centro la trasgressione e la pena, ma la punizione del peccato e soprattutto della sua pubblicità ed immagine sociale. Le domande principali poste ai testimoni vertono sempre sulla fama degli indagati. E i testimoni, spesso a rischio di essere considerati conniventi, rispondono in maniera obliqua. Raramente hanno visto o sostengono un’opinione personale, riportano solo ciò che dice la pubblica voce. Riferiscono la cosa generalmente dopo aver fatto una premessa, quella di non sapere nulla perché “…bado ai fatti miei”. Frase importante e che serve a tutelare la propria… fama… Pur essendoci un elevato livello di recidività la grande maggioranza delle donne scandalose incontrate è oggetto di un solo procedimento inquisitorio. La fama di donna scandalosa e/o pubblica meretrice protratta nel tempo non è dunque la regola ma l’eccezione. Ciò significa, ai fini del nostro studio, che sulla maggioranza di queste donne abbiamo poche informazioni ed un solo contatto relativo ad un momento critico della loro vita e della loro fama. Non è solo un problema di mobilità territoriale, che pure va tenuta presente. Spostamenti per lavoro, per rifarsi una vita, per esilio o per eludere il controllo hanno sicuramente il loro peso. Ancora meno pesa il recupero svolto a livello istituzionale in maniera inefficace. Per la maggioranza delle donne resta da chiedersi quale fossero le modalità di vita e le soluzioni dopo esser state indagate. Sicuramente la confusione terminologica interna al concetto di scandalosità, evitava a molte donne di essere chiaramente bollate come meretrici e quindi poste all’ultimo gradino dell’abiezione sociale. Ciò poteva essere un elemento che si volgeva a favore della ricostruzione di un percorso volto al recupero di un livello di onorabilità accettabile. Non è questo il caso di alcune donne che subiscono una reiterazione negli anni dei precetti e la cui fama assume dimensioni cittadine e si protrae nel tempo. Tra queste un posto rilevante per la fama accumulata hanno le sorelle Barulla. Il fatto di essere sorelle, in questo come in altri casi di coppie parentali, amplifica la fama e favorisce una funzione cumulativa della stessa. Di loro si parlerà per anni, con echi e citazioni anche in procedimenti che non le riguardano. Domenica e Luigia D. dette “Barulla”, vengono inquisite nel 1832, per lo scandalo e “l’ammirazione dei buoni” che genera il loro comportamento, “..facendosi le suddette sorelle vedere andare a spasso per la città coi militari ed altri, nonché ammetterli in loro casa…” Secondo il Procuratore la madre Fortunata, vedova “…mostrasi contenta che trattino liberamente”. Le tre donne che abitano a S. Marco, contrada del Baluardo vengono precettate. Alla madre viene imposto il precetto di custodire le figlie e di non farle frequentare i due Dragoni che esse hanno confessato di trattare. La maggiore Domenica ha 21 anni, Luigia 18. Dopo quattro mesi, nel gennaio del 1833, vengono di nuovo interrogate perché continuano i comportamenti scandalosi. Esse riconoscono diversi commerci carnali passati e presenti. Luigia ricorda come” In tempo dell’ultima rivoluzione io ho avuto commercio carnale con certi forestieri che passavano allora ed erano militari.” Nel 1836, Domenica D. detta Barulla, è quindi già recidiva e di cattiva fama, quando “gravida porta in trionfo questo suo delitto senza vergognarsi…”. La giovane vive ancora con la madre nella stessa cura e questa non si “vergogna portarla girando per la città”. Nel frattempo la sorella minore si è sposata con Girolamo R. detto “Cazzonero”. Interrogata a gennaio, Domenica sostiene che dopo il precetto ha trattato solo Giosuè, fratello del marito della sorella, con il quale da due anni aveva confidenze amorose e cognizioni carnali. Per i loro incontri usavano la casa di una certa Angela. Domenica, per discolparsi, fa riferimento alle presunte lusinghe matrimoniali fatte dall’uomo, la dichiarazione di sposarla dopo partorito e le minacce di ammazzarla nel caso comunicasse la cosa al vicario. E’ nel quinto mese e viene precettata a conservare il feto, vivere in casa e non vagare. Ma la giovane non si attiene alle norme e a maggio è nuovamente arrestata. Ha partorito da quasi due mesi senza render conto del feto partorito “soltanto per dimenticanza”. E’ uscita di casa “…condotta dalla necessità per non avere chi mi desse un aiuto giacché mia madre non è buona ad alcuna cosa”. I testimoni chiariranno le modalità del parto, seguito, per altri impegni dell’ostetrica, dalle vicine di casa e dalla Dorolinda, tessitrice presso la quale Domenica lavora da alcuni mesi. I segni di identificazione lasciati al bambino, permetteranno di verificare l’effettiva avvenuta consegna al Conservatorio degli Esposti ed il successivo battesimo con il nome di Giuseppe. Angela, la quarantasettenne che forniva la casa ai due giovani amanti, cerca di sminuire il suo ruolo. Si appella alla miseria, dato che “è povera e va elemosinando..” e illustra le modalità degli incontri, “… la porta di casa era sempre aperta e io rimanevo poco distante in maniera che li vedevo, siccome però qualche volta mi mandavano a prendere del vino, così non posso dire se in quel tempo…” Dichiara, a sminuire ulteriormente il suo ruolo che il marito, pescatore di calcinelli, era informato delle visite. Vengono sentiti diversi abitanti della Contrada. Domenica, forse perché vi risiede stabilmente da otto anni, non suscita tutte le prese di posizione ostili che potrebbero attendersi. Una donna racconta che ha ripreso la madre perché la figlia girava in pubblico, ma questa le nega la gravidanza della figlia, ma la donna è anchre una di quelle che assiste al parto. Giovanni dice che la giovane occultava la gravidanza e solo”…chi lo sapeva ne rimaneva meravigliato”. L’opinione di cui gode la giovane non è mai stata favorevole, ma Antonio, ebanista ventiseienne , dice che l’ha vista “pel vicinato e non per la città”, lui non sa nulla e per conseguenza la ritiene “per una giovane di garbo”. Giambattista, calzolaio di 48 anni, l’ha vista girare nel vicinato ed ha saputo della gravidanza “mentre era negli ultimi tempi”, non può dire niente contro di lei, venivano a trovarla uomini ma faceva “discorsi indifferenti”. In un secondo interrogatorio, alla Barulla viene richiesto di chiarire le modalità di utilizzo della casa dove avvenivano i suoi incontri. Essa insiste che era l’Angela a venirla a chiamare per conto dello spasimante. Afferma, probabilmente per evitarle un nuovo precetto, che la madre era contraria alla relazione “…avendomici anzi qualche volta anche bastonata…” Alla contestazione della violazione dei vari precetti risponde che lo ha fatto a causa di lui e delle sue promesse di matrimonio “..per cui credo che anch’esso sia reo quanto me e che sia obbligato a mantenere la promessa…”. Una richiesta che evidentemente nessuno ritiene di prendere sul serio. Chiede perdono, implora la bontà e la clemenza del Vescovo per le mancanze commesse “avuto riguardo dello stato mio miserabile” e promette di condurre una vita “differente dalla passata”. Nella lettera di supplica si appellerà anche “..ai doveri di natura verso la propria genitrice che per essere in età prossima alla decrepitezza, di mal ferma salute; e priva di ogni mezzo di sussistenza geme fra la miseria e lo stento.” Domenica ha una cattiva fama in città, ma i vicini non le sono particolarmente ostili. Forse per questo e per l’effetto delle suppliche, Il 21 maggio viene dimessa dal carcere, dopo pochi giorni di detenzione e un nuovo precetto di non trattare Giosuè, altri uomini sospetti, militari ecc. Nel gennaio del 1838 è di nuovo all’attenzione del Tribunale. Perché, espone il procuratore, “…ha dato motivo, in questi ultimi giorni, di mormorazione pel vicinato e di inquietezze ad alcune famiglie per essersi prestata alla libidine di alcuni giovani”. Questi, tre o quattro, sarebbero stati con lei nella casa della vedova Giovanna A. nella sera dell’epifania. Usciti di casa i giovani ebbero commerci carnali successivi con La Barulla in una bottega di canepino. Per l’accusa questa “associazione disonestissima …importa una demoralizzazione vergognosa essendo così reso pubblico il commercio carnale”. La testimonianza della giovane vedova conferma l’ incontro in casa sua, che una sera sono stati lì fino alle due di notte e che “poi i giovani ci condussero a bere… insieme con mia madre e mia figlia di mesi 21”, poi il gruppo si separa. Del resto non sa nulla. Domenica racconta che si era recata a casa della vedova per ritirare 27 baj , il prezzo di un zinale che le aveva venduto, lì incontra gli stessi 3 giovani che più tardi “la sforzano” ad andare con loro nella bottega dove lavorano sotto S. Antonio. Tutti”…ebbero commercio carnale con me e seminarono tutti dentro la mia natura” Uno alla volta, mentre gli altri stanno fuori, la violenza contro la giovane donna viene consumata alla luce di un lume. Della violenza subita Domenica, “nota nella città” per la sua cattiva fama, chiede addirittura perdono agli inquisitori. Una rassegnazione, un abitudine all’oltraggio che non fanno sperare nulla a Domenica ed alla donna di cattiva fama in generale. Ed infatti sarà precettata solo lei. Alla donna, di fronte alla violenza subita, non resta altro che la rassegnata dignità che le fa dire: “…io non volli esser pagata perché sforzata”. Nel febbraio la donna è precettata ed interrogata di nuovo, questa volta per la relazione con Giacomo F. detto “il Mantovano”. Siamo al momento decisivo della vicenda di Domenica. Attorno a lei si crea il vuoto ed inizia a stringersi un cerchio sempre più stretto. Ad aprile viene precettata a non frequentarla, la già citata Giovanna , tessitrice di 24 anni, rimasta vedova da 20 mesi. Secondo la voce pubblica tiene una condotta poco onesta e si sarebbe associata alla Barulla nel vagare di notte. Ma nonostante le voci si aspettavano le prove “ed infatti il curato ha reclamato contro le due”. Sempre nello stesso anno si indaga anche sulla sorella, Barulla giovane, e la scandalosa relazione che tiene con un canonico. Ma torniamo a Domenica e Giacomo. Le famiglie dei due abitano nella stessa casa a S. Marco. All’epoca lui ha 31 anni, contro i 25 di lei, in l’uomo è stato garzone di stalla presso la brigata dei finanzieri. Domenica narra: “…come mio vicino di casa lo conoscevo e lo andavo a trovare e mi dava li quattrini per mangiare”. Lui ha perso il lavoro perché la stalla alla Posta vecchia era diventata un luogo d’incontro, non solo per i due, ma a detta della B., anche della sorella del Mantovano e di un’altra donna con svariati uomini. Ma Domenica vuole evidenziare una dimensione diversa. Giacomo passa la notte con lei e “…egli vorrebbe sposarmi se trovassi chi mi facesse li lenzuoli , io da che tratto il Mantovano sono 4 o 5 mesi che non ho avuto commercio carnale con altri uomini.” Realtà o immagine che vuole evocare comportamenti di tipo coniugale. Ma questa dimensione non interessa più chi ormai vede la donna come un problema di ordine pubblico. I due sono precettati a non trattarsi. Dopo circa un anno Domenica viene nuovamente carcerata perché trovata nella notte,” circa le ore 4 italiane”, dal comandante dei Finanzieri col nuovo stalliere, un uomo di età avanzata che aveva sostituito Il Mantovano. Si sospetta che la donna sia stata inviata da Giacomo per causare la caduta in disgrazia del garzone. Dopo due mesi di carcerazione, durante i quali prima nega e poi riconosce di essersi concessa allo stalliere, la donna è rilasciata con il rinnovo del precetto e la minaccia di 7 anni di reclusione. Intanto l’inchiesta sul Mantovano prosegue. Il 29 settembre 1839 siamo alla svolta decisiva. I carabinieri Pontifici arrestano i due in una cantina “allorché mangiavano e bevevano… ” Domenica continua a cercare di dare un quadro positivo della relazione, “mi riteneva quasi come moglie…col promettere di sposarmi” Hanno continuato a frequentarsi, nonostante il precetto, sia in privato che in pubblico. La difesa della donna e quella di riconoscere i suoi errori ma di chiedere che lui la sposi. Ultimo ed inutile tentativo di difesa processuale o della dignità dei propri affetti, Domenica ci regala l’immagine, tutta coniugale, di quando lui giace malato in ospedale e lei gli prepara la “minestra con la carne e le stelline”. Qualche testimonianza sosterrà l’esistenza di una promessa o evidenzierà un legame, testimoniato anche da modalità scandalose ma affettuose come il baciarsi in pubblico. Ma sarà l’uomo a non dare speranza alcuna, a non voler mettere minimamente a rischio la sua posizione. Giacomo è stato militare per 10 anni , ex calzolajo e ora è vetturino. Minimizza i rapporti con la donna, addirittura arriva a sostenere che andava nella camera di lei per non svegliare i genitori… Nega ogni promessa e freddamente ribadisce”…ogni volta la ho pagata come Puttana e perciò essa non può pretendere niente da me.” Saranno probabilmente queste dichiarazioni ad alleggerire la sua posizione maschile già più leggera. Apertosi il processo si arriva, nel gennaio 1840 alla sentenza. Non solo si era di fronte alla scandalosità ma anche alla pertinacia nella dissolutezza. Una immoralità scandalosa “da sedurre il popolo come dal Concilio di Trento espressamente è vietato”. “Nelle difese il sig. avv. dei poveri non altro dedusse che raccomandarsi alla pietà dei giudici”. I due erano incorsi nella violazione del precetto che li minacciava di sette anni, ma solo lei sarà condannata alla detenzione al S. Michele di Roma. Condannata effettivamente, caso raro, ai 7 anni minacciati dal precetto, lui dice la sentenza, “… rimane già provvisto coll’esilio da questa diocesi a cui egli acconsente…”

2.6-Fame e denaro: Celeste e Domenica.
Abbiamo visto come fosse frequente l’accenno alla povertà da parte delle imputate. Richiamare la povertà è la strategia più frequentemente adottata per cercare di contrattare la pena minore. Si tratta di una modalità usata in parecchi tipi di processi e che rimanda a delle specificità di genere nelle strategie di confessione e difesa. Per le donne la migliore strategia di difesa è quella centrata sulla debolezza femminile, la povertà e il bisogno. “Era sufficiente utilizzare la parola bisogno per convocare i monsignori del Tribunale del Vicariato sul terreno pastorale, del recupero, del riscatto, del riavvicinamento alla pratica sacramentale. Nella concezione prevalente tra il clero romano infatti la povertà non era vizio, o castigo per colpe nefande; povero era chiunque fosse sprovvisto del necessario per sfamarsi ma anche per mantenere il proprio stato nella società civile, e quindi salvarsi dalla degradazione materiale e spirituale. Di qui l’obbligo cristiano alla carità…” La povertà esalta la fragilità femminile, che porta al meretricio. Quindi simili appelli rispondevano alle aspettative dell’autorità ecclesiastica sulla femminilità. Una strategia che si rivelava generalmente efficace favorendo il perdono paterno da parte di un autorità che ne usciva legittimata. Come i monsignori sapevano bene, la povertà nello Stato Pontificio era un bene diffuso ed un aumento. L’elevato numero di poveri e mendicanti che riempivano le strade dell’Italia centrale era annotato da innumerevoli viaggiatori stranieri. Far leva su di essa in un giudizio non richiedeva grandi sforzi, era reale e visibile. Casi esemplari di perdono per evidente debolezza e povertà, ci appaiono le due giovani sorelle Celeste e Domenica C. La loro condizione è lampante, la seconda, giovanissima, è una delle poche adolescenti inquisite per scandalosità. Il loro fascicolo è significativo nella sua essenzialità. Esso si riduce ad un elenco di tariffe e prestazioni. Contrariamente alla regola che pone in ombra l’azione mercenaria e le sue caratteristiche, omettendola o accennandola di sfuggita qui essa è amplificata, ad esaltare il quadro di miseria umana e materiale, di debolezza e laidezza del comportamento. Nel 1841, arrestate in una bettola, le due sorelle si dichiarano filatrici ma sono spesso ad elemosinare sulle strade. Celeste ha 21 anni Domenica 15. Tengono vita cattiva; la maggiore dichiara: “…ho fatto qualche volta li cosiddetti pugnetti, ossia ho toccato gli uomini nelle parti pudende e questi toccavano nel petto e nella natura, come pure qualche volta ho avuto commercio carnale con li uomini.” I toccamenti osceni sono avvenuti con vari personaggi, tra gli altri con Eugenio R. e con Luigione addirittura nella chiesa della Cattedrale. Giuseppe V. l’ha conosciuta carnalmente per le scale del suo palazzo. Molti altri l’hanno tentata , specialmente uno storpio che lei ha sempre rifiutato e col quale “ci andette mia sorella”. “La B. mia compagna fa le stesse porcherie”. Domenica, la minore racconta che faceva da palo alla B. e alla sorella. Con T. alle mura del suffragio la B. ha preso un papetto e lei 9 baj. Un ‘altra volta sotto l’Arco Alavolini, sempre in coppia con la stessa donna, prendono rispettivamente 6 e 1,5 baj. E ancora, “Fortunato P. ci chiamo… nel suo ufficio e ci alzò le vesti a tutte e due davanti per vedere se avevamo nella natura li peli” in cambio l’uomo paga 1 baj a testa. Le due sorelle sono precettate e consegnate alla zia “Ciuffolina” che è disposta ad accoglierle. Nel marzo dell’anno successivo, saranno di nuovo arrestate e liberate col rinnovo del precetto. Celeste aveva vagato di notte chiedendo l’elemosina per il Corso, creando scandalo perché si supponeva avrebbe commesso oscenità. Domenica confessa di aver commesso atti disonesti con la scusa dell’elemosina e riaccusa la B. e una certa Rosa la “Ferrajuolina”.

Guardando oltre alle strategie processuali è evidente che il bisogno e la debolezza socio economica possono assumere aspetti brutali. La miseria diffusa di ampi strati della popolazione può toccare punte estreme e favorire il diffondersi del ricorso al meretricio che poteva permettere di sopravvivere, giorno per giorno, sbarcando il lunario come la massa dei lavoratori precari. Il meretricio permetteva di integrare un reddito insufficiente. Un processo per gravidanza può far emergere casi in cui la prostituzione occasionale appare una delle opportunità utilizzate. Geltrude B. ha 27 anni e si dichiara filatrice. E’ già stata ammonita per la sua vita scandalosa e precettata 4 anni prima perché incinta. All’epoca aveva attribuito la paternità ad un uomo sposato, un pesarese, ora è di nuovo gravida e indica come responsabile un carabiniere di passaggio. Forestieri veri o immaginari, il modello è praticato anche da sua sorella Teresa, 35 anni , che nello stesso anno è inquisita per lo stesso motivo. Il responsabile anche in questo caso è indicato in un anconetano di passaggio, “che mi avrebbe sposata”. Lo stesso forestiero sarebbe l’autore anche della successiva gravidanza, del febbraio 1825, perché :”…è tornato il forestiero dell’altra volta… a conoscermi carnalmente una volta in piedi e una volta sul letto, anzi in quell’istesso giorno ritornò più volte e sempre mi conobbe carnalmente per cui sono rimasta incinta”. La donna sarà precettata per la terza volta a conservare il feto, a vivere ritirata in casa e a non trattare uomini sospetti. Le due sorelle hanno una storia speculare perché anche Geltrude, nello stesso febbraio 1825, subisce l’ennesimo procedimento per l’ennesima gravidanza. Questa volta però svela con chiarezza la pratica occasionale del meretricio. La donna racconta di essere andata alla fiera di Senigaglia di nascosto dalla madre. Qui si è fermata in una osteria in piazza dove si congiunge carnalmente con due persone, nell’arco della giornata, usando una camera vicino alla cucina. In cambio ottiene 9 pauli. Forse quella che per alcune vuole essere una parentesi occasionale e limitata nel tempo e nello spazio finisce in una avventura incontrollabile e con un brutto finale. E’ probabile che prostituirsi a Fano e Senigallia per periodi limitati di tempo sia la modalità adottata da Leonilde B. di San Costanzo. La giovane ha 23 anni e si dichiara tessitrice quando viene arrestata nel luglio 1848. E’ già stata carcerata e precettata quattro anni prima dalla curia di Fano ed ha avuto gli stessi problemi con quella di Senigallia. La donna è in città da soli dieci giorni ma c’è da dubitare che sia passata inosservata. Il rapporto dei carabinieri la descrive come donna “abbandonata alla debosciatezza”. Suscita clamore e agitazione nei giovani, e altrettanto clamorose sono le modalità dell’arresto. Una situazione che evoca il trattamento ed i clamori dei giovinastri attorno alle meretrici delle città medioevali. La donna è arrestata alle 10 pomeridiane (2 di notte) in prossimità della chiesa di S. Silvestro, posta sulla piazza principale di Fano. Era stata “inseguita da diversi giovanotti della città per cui fu costretta a ricoverarsi nella chiesa… senza rispetto del luogo, alcuni di costoro si introdussero”, imprecando, bestemmiando e strattonandola per estrarla dal luogo sacro. L’arrivo della Guardia Civica, siamo in periodo rivoluzionario, mette in fuga i giovani e porta all’arresto di Leonilde. Interrogata la donna sostiene di essere partita da S. Costanzo per trovare servizio a Fano, in accordo con il padre, “perché non posso coabitare colla Matregna la quale mi strapazza e mi usa delle sevizie.” Ma la parte, per noi, più interessante del racconto è la descrizione della vita che conduce in quei dieci giorni. Una descrizione cruda e senza reticenze e che forse non viene adeguatamente riequilibrata con gli accenni che la donna fa al disagio familiare e alla miseria. Il risultato sarà la condanna della giovane a “soli”, come specifica la sentenza, 3 anni di reclusione in casa di correzione al S. Michele di Roma. Ma veniamo al racconto. A Fano Leonilde ha delle conoscenze di vecchia data, in particolare Maria una delle famose sorelle B., la incontra appena giunta dal paese e le trova un alloggio per dormire fuori Pta S. Leonardo. Il prezzo è di 2 baj a notte ma la donna sostiene di aver portato con se solo mezzo paolo e quindi dichiara che “per mangiare e per continuare a pagare l’alloggio ho dovuto prestarmi ad atti disonesti con più uomini da me non conosciuti li quali mi pagavano chi mezzo paolo, chi 3 baj chi più e chi meno.” A procurarle gli uomini era una certa Angela, fanese già carcerata sia a Pesaro che a Fano. “sono stata una sera alla spiaggia marina sotto monte e vi ho avuto commercio carnale con tre uomini”, dei tre conosce solo Antonio, fattore ammogliato che abita fuori Pta Maggiore. Ai passeggi ho avuto commerci con altri cinque uomini che non conosce, “giovanotti tornati dalla guerra fra non molto”. Ogni sera ha “commesso il male” nei passeggi anche con altri, cinque “garzoni dei canepini” e altri che non conosce, “tutti mi pagavano qualche bajocco”. Una così intensa attività, forse ispirata alla volontà di accumulare in breve tempo una somma discreta, non poteva che richiamare rapidamente l’attenzione su Leonilde, estranea alla comunità e quindi più facilmente punibile.

Crediamo che il prevalere di una prostituzione occasionale non sia solo il risultato un assetto socio-culturale, ma anche di un sottosviluppo del mercato. L’industria del sesso a pagamento sta muovendo i primi passi in ambito internazionale e in situazioni marginali il livello di mercantilizzazion è basso. Prostituirsi in cambio di un regalo, di una misera cena può non essere solo porsi ad un livello degradante e svalutato, ma date le limitate risorse disponibili tra i ceti popolari e il limitato sviluppo di quelli borghesi, l’unico modo possibile per un numero significativo di donne di prostituirsi in una situazione di basso sviluppo mercantile. Tuttavia sarebbe un errore vedere un legame esclusivo tra miseria e prostituzione. La maggioranza delle prostitute incontrate sono povere non solo perché la grande massa della popolazione è povera ma anche perché l’asimmetria sociale dell’azione repressiva colpisce le donne povere e i miserabili. Le prostitute provenienti da altri ceti sociali appaiono raramente perché la loro presenza non è percepita nella prima metà del secolo come inquietante. Forse in termini generali il rapporto tra la prostituzione e la dimensione materiale ed economica va colto in relazione non solo alla miseria ma ad un concetto ampio di bisogno, che unisce maggiormente la dimensione economica con la cultura e i valori degli individui e delle classi. In quest’ottica la prostituzione non appare esclusivamente legata al bisogno di sopravvivenza materiale ma anche a necessità di sopravvivenza sociale, di mantenimento o miglioramento del proprio status, di aspirazioni di autonomia e successo. Su questa base è possibile quella relazione interclassista tra individui che maschera lo sfruttamento sessuale delle classi subalterne.

Ma si poteva vivere del meretricio? Per una storia che è prevalentemente storia della prostituzione popolare, questo quesito non è così irrilevante. L’immagine che i contemporanei hanno è ambivalente. La prostituta appare, nella visione popolare, una donna misera o al contrario una che tiene uno stile di vita sospetto perché superiore alla sua condizione. Immagini di estrema povertà o al contrario di piccoli lussi. Abbiamo visto come “il muscinare il grano”, faccia sospettare. In un’altra situazione gli abitanti della contrada Bellavite, nella cura di S. Marco, scrivono un reclamo al vicario contro Agostina O. loro coinquilina. La donna terrebbe il casa la nipote Margherita C. facendole da ruffiana, “…perché a carico dell’onore e della coscienza della nipote, procuri il denaro per mantenerle robusti vizi”. Negli interrogatori che seguono, si lascia balenare una immagine di donne che trattano uomini dotati di disponibilità economica, tra i quali emerge C. ispettore dei mulini. Margherita avrebbe anche cercato di reclutare Santa, la figlia coetanea dei vicini, alla quale racconta le sue avventure e “la ha esortata a tralasciare il telaro e invece attendere alla disonestà perché così si viveva bene” Una immagine ambivalente diffusa nel popolo ma che le stesse meretrici tendono ad alimentare, per ragioni di opportunità, di reclutamento o di autostima. Eppure questa ambiguità potrebbe essere reale. Forse alcune riescono a raggiungere un miglioramento indipendentemente dalle apparenze superficiali di uno stile di vita che devono mantenere, far apparire e che favorisce alti e bassi.. In che misura il meretricio calmava la fame o ristabiliva le sorti di una donna che doveva mantenere la madre o i figli ? Le fonti sono reticenti ed un calcolo dedotto da poche informazioni è sempre pericoloso. Ci assumiamo dei rischi e parliamo di prestazioni e compensi. Innanzitutto i termini di paragone. In una società dove la maggioranza delle persone è costretta a spendere quasi tutte le sue risorse per alimentarsi, i raffronti vanno presi con le molle. L’enorme disparità sociale, la dobbiamo al momento cancellare, essa ha i suoi ambiti e le sue mantenute. Il più ricco dei nobili che siede in consiglio comunale nel 1831, ha una rendita fondiaria tassata di 2.360 scudi annui. Ci resta il paragone con la sopravvivenza proletaria o piccolo borghese. Nel 1856 un segretario comunale percepiva uno stipendio mensile di 5 scudi, un maestro di 8 o 10, mentre un insegnante di scuola superiore poteva arrivare ai 150 scudi annui. Un medico condotto poteva aspirare ad entrate annue tra i 200 o i 400 scudi. Chi non lavorava ed aveva il raro privilegio di una giubilazione, pensione concessa dallo stato o dalla magnanimità di un padrone poteva arrivare agli 8,25 scudi mensili di un verificatore postale con trent’anni di servizio. Nel sistema monetario pontificio 1 Bajocco equivale a 10 denari, 1 Paolo a 10 Bajocchi, 1 scudo a 100 Bajocchi. Se veniamo ai ceti più miseri possiamo rilevare che un muratore poteva guadagnare circa 30 baj giornalieri per 90 giorni maggiore attività dell’anno. Fortunato, falegname senza bottega lavora per 15 baj giornalieri. Il soldo giornaliero di un militare della Linea Pontificia, il cliente tipo di molte meretrici, si aggirava si una decina di bajocchi giornalieri. Una stima del bilancio familiare necessario per 4 persone, che godano di una discreta condizione, si colloca tra i 10-20 scudi mensili con una disponibilità giornaliera di 33-66 baj. Una condizione agiata se paragonata al possibile reddito di un casanolante che è di circa 13 baj giornalieri per le 180 giornate lavorative che può sperare, se fortunato, di svolgere nell’arco di un anno. Un reddito annuo possibile di circa 33 scudi. Aggiungendo 10 scudi per 90 giornate lavorative della moglie ci si colloca su una disponibilità familiare giornaliera di circa 10 baj nel 1860. Se togliamo un bajocco per il nolo della casa, il focatico ecc., restano 9 baj giornalieri da utilizzare “sapientemente” e con i quali si acquistava poco di più di un chilo di pane. Una speranza di reddito da conquistare giorno per giorno e che doveva a tutti i costi essere integrato. E’ evidente che per la donna capofamiglia è ancora più difficile, essa è quasi sempre dequalificata. Ottenere un reddito è una lotta quotidiana. Per una casanolante anche dando per scontati i 10 scudi annui di 90 giornate di lavoro ci si avvicinava a malapena ai 3 baj giornalieri. A questi livelli qualsiasi attività che garantisca la sopravvivenza fisica può diventare appetibile. Spesso si lavora in cambio del vitto come accade nel caso di Maria la Quagliarina, che dichiara di lavorare in una bettola in cambio del vitto giornaliero. La donna non risiede nella locanda e per dormire paga 1,5 baj per sera e che si dice aiutata dal suo confessore, “degnissimo sacerdote gesuita”, che le passa tre baj giornalieri per aiutarla a uscire dal meretricio e indirizzarla verso il lavoro.

I compensi ottenuti in cambio delle prestazioni sessuali mostrano una grande variabilità ma non tali che la prostituzione popolare possa porsi grandi obiettivi oltre l’integrazione del reddito ed la sopravvivenza. Nel corso dei decenni non si notano grandi variazioni. I compensi sembrano mutare più in relazione al cliente che alla prestazione. Dai militari di truppa si possono ottenere dai 5 baj ai 10 baj. Ma in quest’ultimo caso è l’albergatrice che ospita la meretrice a trattenere il paolo pagato dai militari, per Angela giovane Jesina, la prestazione vale solo vitto e alloggio. Alla donna che alloggia e si prostituisce in locanda resta sempre ben poco, come conferma anche il caso di Nazarena. La situazione non migliora quando si trattino giovani fanesi, in genere squattrinati. In questa situazione, il meretricio con compenso in natura, in genere cene e bevute, non appare poi così penalizzante. La dichiarazione fatta da molte donne di avere commerci solo in cambio del mangiare può quindi essere letta, non solo come uno sminuire la colpa, ma anche come specchio di una realtà. In questa situazione, i 9 pauli (90 baj) guadagnati da Geltrude B. alla Fiera di Senigallia, per due commerci consumati nella locanda, appaiono una buona cifra. Le fiere, per l’aumento della domanda e la momentanea disponibilità di denaro da parte dei clienti, dovevano fornire opportunità remunerative. Alla Fiera di S. Lucia, Rosalia al primo incontro con un canepino, ottiene 3 paoli e 2 libbre di canapa. Alcune figure sociali sembrano pagare meglio, Smeralda ottiene 1 paolo (10 baj) da un vetturino, Giulia di Ferretto 2 o 3 paoli da un carrettiere. In tre commerci singoli commerci carnali, l’orologiaio Serafino spende 45 baj. A volte la situazione è complicata perché alla prestazione sessuale se ne associa una lavorativa. Annunziata ottiene 5-6 baj da un vetturino in cambio di un rapporto e di un fascio di gramigna. Geltrude T., ottiene 3 paoli a volta da un ufficiale al quale però deve anche lavare i panni. L’estrema variabilità di compensi del meretricio è sintetizzata dal caso di Geltrude T., si va dai 20-30 baj ricevuti per diversi rapporti con giovani fanesi, ai 3 paoli del tenente, al mezzo paolo per atti turpi, o al più remunerativo compenso per 6-7 mesi di rapporti col Vernaccina, 30 paoli (3 scudi, 300 baj). Una situazione che poteva rendere più attraente richiedere una dote per cercare una sistemazione grazie ai propri clienti o seduttori. Come la dote di 15 scudi fornita a Smeralda da parte di un benestante e del suo cuoco, per poterla trattare, in società e con il consenso del marito per due o tre mesi dopo il matrimonio. O i 100 scudi che, come abbiamo visto, Antonio ha promesso al marito della sua amante ed ex serva. Una sopraddote di 300 scudi, ottenuta per sposare uno storpio permetterà alla scandalosa Rosa C. di mantenersi ad un certo livello sociale anche durante la vedovanza. Per la maggioranza di queste donne la gravidanza non è solo un problema per la fama e l’onore. E’ anche un problema economico per i costi legati alla limitazione dell’attività lavorativa ed al parto. Se per la meretrice conclamata questi costi sono completamente a suo carico per altre donne scandalose può essere cercato un risarcimento possibile grazie alla solidità familiare ed alla posizione sociale. Teresa L, ottiene dal commerciante Luigi P. 48 scudi di riparazione e le spese della mammana (15 paoli). Quasi simbolici e a significare il ristabilimento della pace familiare i 5 scudi di riparazione per la gravidanza incestuosa di Vittoria col cognato. Denotano un rapporto stabile ed un certo benessere economico i 50 scudi che Rosa, vedova scandalosa ma non poverissima ottiene per una gravidanza. Un divario enorme se paragonato a quanto ottiene Rosalia, resa gravida da un caffettiere coniugato; 1 scudo per il primo parto e 3 baj gionalieri per il secondo. Nemmeno la sopravvivenza fisica per i mesi di inabilità.

2.7- Il mal francese
La pesarese Rosa R. risiede temporaneamente a Fano con due figlie. Qui le ragazze “…seducono altresì la gioventù al male. Le dette Antonia e Cecilia poi trovandosi infette di lue celtica, ed avendo tenuto commercio carnale con uomini hanno questi contratto tal veleno ma fra gli altri… affetto è rimasto il coniugato Serafino C. orologgiaro di questa città…” Dopo una denuncia fatta dall’uomo, le due giovani sono individuate e arrestate immediatamente. La madre è fuggita ma è ripresa il giorno successivo. Il 18 luglio 1823, l’immediata perizia del medico conferma che le due sorelle sono affette da blenorragia e rogna. Una misura “..contro le dette scostumate donne veniva reclamata dalla religione, dal buon costume e dalla pubblica incolumità….dallo zelante parroco, dal vicinato e dagli stessi vulnerati.” L’orologgiaro racconta il suo adescamento “…le dette due giovani mi presero sotto braccio e andassimo tutti a bevere un bicchiere di vino e mangiare una fetta di prosciutto. Dopo avere bene bevuto e mangiato ritornassimo in città essendo le ore una e un quarto circa di notte e le accompagnai a casa e mi trattenni circa un’ora. Furono fatti nel frattempo discorsi allegri ed invitai a tutte e due le suddette…ma esse mi dissero di essere incomodate, la Cecilia di moroide e l’altra disse di non trattare e poi mi dissero che fossi tornato la mattina.” Difatti Serafino torna verso le 12 e trova la madre con un ragazzetto di 4 o 5 anni che andava a scuola da loro. Le figlie sono nel letto, allora “…la madre ingiunse alle figlie di sollecitare quel che si doveva fare perché dovevano venire a scuola altri ragazzi” e condusse il ragazzo di sotto. Serafino narra: “…in quel frattempo ebbi congiunzione carnale con la nominata Cecilia nella quale azione fu sempre presente la sorella Antonia…”, terminata l’operazione restano a letto, lui parte e regala un testone alla Cecilia. L’uscita di casa avviene con la madre delle ragazze posta di sentinella per vedere se passava alcuno. L’uomo frequenta la casa per altre tre sere “….ove per due volte ho conosciuto carnalmente la indicata Cecilia, e l’ultima volta dicendo questa di essere incomodata mi offrì da se stessa la sorella Antonia… Nelle suddette sere li ho dato due pavoli, ora 15 baj. ed ora un pavolo. Dopo due sere mi accorsi di essere attaccato dal malvenereo e sospettai subito…” Egli sostiene di aver successivamente saputo, dalle stesse donne, che altri 5 uomini sono stati impestati e li nomina. Le tre vengono subito interrogate. Abitano nella parrocchia di S. Arcangelo a casa di una ortolana. Cecilia la più piccola ha 16 anni, sartrice, dice di essere a Fano perché consigliata dal chirurgo “…per trovar aria migliore”. Rispetto alla visita a cui è stata sottoposta, dice che il chirurgo “…mi ha trovata la rogna, e poi mi ha visitata nelle parti pudende e mi disse che fossi un poco infetta di mal francese io però li soggiunsi che so stata malata di moroidi.” Conferma quanto raccontato dall’orologiaio e attribuisce ad un militare la responsabilità di averla contagiata. Anche Antonia, 18 anni, si dichiara sartrice e si trova nella sessa condizione della sorella e anche lei indica la causa del contagio. La madre quarantacinquenne non aggiunge nulla di significativo se non l’accenno al suo stato civile. Donne sole per uomini soli, il marito di Rosa, padre delle ragazze, è lontano ed è un carabiniere… Il tribunale decide l’allontanamento dalla diocesi con il precetto di non tornare, pena il carcere e la frusta. Per il C. si propone di procedere dopo la sua guarigione… L’insolito apparire di un cliente, in un caso che ci introduce al rapporto con la sanità pubblica e le malattie veneree. Un terreno su cui, nel corso del secolo, si giocherà una grossa parte delle politiche relative alla prostituzione. “La scienza medica era virtualmente impotente di fronte all’epidemia. I medici non sapevano neppure che gonorrea e sifilide erano malattie diverse e pensavano che la prima fosse uno stadio della seconda e per entrambe usavano un trattamento al mercurio che era doloroso, si protraeva per lungo tempo ed era spesso inefficace. Ne essi erano in grado di dire quando la cura era terminata” Una situazione di indeterminatezza che alimentava una paura generalizzata ed indistinta per qualsiasi infezione venerea. Malattie presenti da secoli e considerate segno della degenerazione fisica e morale creata dalla dissolutezza. Nei primi anni della restaurazione, su questo come su altri ambiti, si registrò il tentativo di non cancellare completamente l’eredità napoleonica che aveva originato forme di intervento legate all’emergere di una nuova visione, illuministica e borghese, nella classe medica e nelle istituzioni politiche. Questa mentalità aveva portato alla creazione di Ospedali per prostitute. Strumento della politica regolamentazionista queste istituzioni sopravvissero nei primi del governo pontificio per poi essere chiuse definitivamente. Si tornò quindi alla tradizionale politica di repressione e allontanamento dalla comunità della portatrice, la cui infettività dimostrava l’infamia di una scandalosità grave. La cura della malattia restava un problema legato ai mezzi ed alla volontà individuale e soprattutto l’uomo non veniva mai reso responsabile del contagio. Una politica poco efficace e che messa parzialmente in discussione dalle nuove istanze di controllo e repressione che si imporranno con l’unità d’Italia. La fobia delle malattie dilagava dando la percezione di un contagio diffuso e rendendo difficile una valutazione sulle proporzioni effettive del pericolo. Nelle nostre fonti, di mal francese si parla spesso, dandoci l’impressione di una diffusa familiarità con le malattie veneree. Occorre tuttavia diffidare di testimonianze in cui l’attribuzione del contagio serve a rafforzare l’immagine di scandalosità di certi soggetti. Un contagio attribuito facilmente e a sproposito, ma anche casi dove, al contrario, è la presenza del male a favorire lo svelarsi d’eventi che sarebbero rimasti nascosti. Come nell’unico caso relativo a una presunta violenza carnale attribuita ad una donna. La protagonista si chiama Maria C., originaria di S. Costanzo abita sulle mura della città, ha 21 anni ed è sposata da tre, quando viene querelata dalla famiglia del quindicenne Giuseppe. Il fatto sarebbe avvenuto mentre il giovane conduceva al pascolo alcune pecore in località la Trave. Tutto era stato tenuto nascosto fino al palesarsi della malattia. I due, infatti, sono colpiti lei di “contagio venereo, in altre parole da ulcerosi e blenorragia ” lui “è attaccato da gonorrea ripercossa ai testicoli pure d’indole contagiosa”. Il padre del giovane pizzicagnolo, nella sua querela oltre ad illustrare le modalità, la malattia e la moralità del figlio chiede che si proceda “…contro questa donna che non merita stare più in sta città essendo come si sa appestata.” Egli sostiene che la stessa suocera di Maria avrebbe dichiarato, di fronte a testimoni, che la nuora è “appestata da un anno fa”. Uno dei testimoni citati, racconta che nella stessa occasione Maria sostenne di esser stata presa “di filo a forza” da Giuseppe e che lei e la suocera chiesero alla madre del ragazzo d’avere pazienza e di non dire nulla. La versione della donna sulla violenza quindi è diversa, ma anche lei attribuisce a quel rapporto la causa del contagio di cui soffrirebbe anche il marito Paterniano. Le due versioni della violenza concordano solo sul fatto che il membro del giovane” non si corruppe”. L’occasione secondo la donna si sarebbe creata dal fatto che lei andava, in compagnia di una vedova, a raccogliere la foglia de’ mori per i vermicelli. Alle due, da alcuni giorni, si era aggregato il giovane “cacciato di casa e perciò costretto a raccogliere la foglia per venderla”. Quel giorno la solita vedova non c’è e Maria e Giuseppe vanno soli. Lui, che è il figliastro di Paulo, sostiene che stava pascolando una cavalla e due pecore fuori di Porta Maggiore quando passa la donna che lo invita ad andare con lei per raccogliere la foglia, lui acconsente e lega gli animali. La donna racconta che passata l’Arzilla “…giunti in un fosso mi diede 4 o 5 pugni, e mi prese per forza dicendomi che voleva usare con me carnalmente, io strillai e ricusai… fui violentata in un solco di grano…” Dato che il giovane non seminò, Maria riferisce che Giuseppe sostenne che ciò era dovuto al fatto “che io non mi ero prestata volentieri…” Nell’opposta versione appare una discrepanza tra i toni del patrigno e quelli del ragazzo. Secondo il primo, lei lo “prese a forza per un braccio e condottolo nel campo…si alzò la sottana…sciolse la patuella al figlio stesso, gli tirò fuori il membro e la donna stessa se lo introdusse nella sua natura…”. Invece Giuseppe racconta che “…stando a sedere e discorrendo di amicizia di alcuni uomini e donne essa si alzò la sottana davanti, mi prese per un braccio, mi sbottonò la patuella…e conobbi carnalmente…stando essa distesa per terra ed io sopra…” I due poi sarebbero anche rientrati assieme. Indipendentemente dalla verità e dalle responsabilità il fatto sarebbe rimasto coperto dal silenzio come tante altre situazioni analoghe. Ma succede qualcosa. “Una settimana e mezza dopo mi sentii male nel membro, ma non dissi niente…accorgendomi posteriormente che dal membro mi usciva come acqua”, Giuseppe si confida con Vincenzo, muratore, che “mi disse che era la scolagione…, Crescendo il dolore ed essendomi guastato un testicolo mi feci vedere dal chirurgo…” Ed è proprio sulle perizie ed il relativo stato di avanzamento del male venereo che si gioca ormai l’indagine, sostenendo entrambi di essere stati infettati dall’altro, la malattia diventa indicatrice della moralità e della veridicità dei due. La perizia del chirurgo sembra dare ragione all’uomo, dato che per la donna sembra che la malattia ” sia di qualche mese”, mentre per il ragazzo è “di recente sviluppo”. Nella difficoltà di decidere e dato che gli animi “sono alquanto inquieti” il Tribunale ritiene di “precettare ambe le parti a non offendersi”. In realtà è significativo che le precettate sono solo Maria e la madre di lui. La vicenda non ha altri strascichi giudiziari. Ma quattro anni dopo il sipario si riapre su Maria e suo marito. Paterniano è un tipo violento, ha 33 anni, fa il facchino ed è già stato precettato a non picchiare i genitori e la moglie. Viene arrestato e dopo una decina di giorni di carcerazione dimesso col precetto di assolvere il precetto Pasquale e non maltrattare i familiari. Due mesi dopo è il turno di Maria, arrestata a Senigallia. La donna racconta: “Era carcerato mio marito in questo tribunale, ed io per guadagnarmi il pane, senza il consenso di mio marito, sono andata alla Fiera di Sinigallia…Ivi servii in casa di un ebrea…che teneva una locanda ebraica in contrada Fonte del Duca”. Finita la fiera si reca ad Ancona al seguito della stessa padrona, che vi abita stabilmente. La donna dice di esser fuggita dalla “casa maritale” per paura di essere bastonata quando all’uscita dell’uomo dal carcere. Promette di ritornare unita al marito e viene rimessa in libertà con il Precetto di vivere onestamente e… di non trattare militari. Il contagio venereo, alimenta la violenza e la conflittualità quotidiana, ma è significativo che questa venga ridotta a momento di scontro tra donne. E’ il caso di Maria, vedova di Cuccurano, carcerata già due volte per le sue “cattive pratiche”, che è picchiata, sulla Piazza di Fano, da una donna che la sospettata di aver attaccato il mal francese al marito. Nel 1859 è una madre, Rosa B. che ritenendo che il figlio Bellisario fosse stato infettato dai commerci con Castora D, incontrandola per strada la oltraggia e rimprovera suscitando la reazione della donna. Interviene Fortunato, un amico di Rosa, che viene ferito con un coltello. Allora l’uomo, con il coltello, ferisce a sua volta Castora ad una mammella. Due dei tanti esempi di oltraggio e addirittura, in un altro caso, di accertamento sullo stato degli organi genitali subito da donne presunte “impestatrici” ad opera di altre donne. Anzi, il carattere pubblico di questa rappresentazione è sicuramente carico di significati. Casi come quello di Serafino atipici. L’uomo resta sempre defilato anche nella contestazione dell’avvenuto contagio. Su di lui non pesa alcuna responsabilità, ne sembra nei suoi rapporti particolarmente attento a non contrarre e diffondere la malattia. La frequenza di adulteri, rende sicuro il contagio all’interno della famiglia, ma la moglie contagiata è sottoposta all’autorità, spesso violenta, del marito e non può che rifarsi su un altra donna. Anche qui capita tuttavia d’incontrare situazioni atipiche, di donne che sfruttano le contraddizioni del sistema per tutelarsi. E’ quello che fa Maria moglie di Luigi, stalliere della Locanda del Moro. La donna denuncia il marito, che dopo aver avuto commercio carnale colla moglie di B., ha contratto il male venereo e che ,”non ha avuto difficoltà di comunicare tale malore alla comparente la quale si protesta di non voler più conoscere e coabitare col marito per finché non si sarà levato da tal malore”. Al Tribunale ecclesiastico la donna chiede di essere alimentata e mantenuta, “perché essa era libera e sana, ne ha tradito il talamo coniugale”. Il marito confessa e riconosce le richieste della donna. La malattia della donna scandalosa può anche ispirare compassione e solidarietà nel vicinato. Una indicazione che questi rapporti non sono sempre pessimi. Cosi quando Rosa M., viene indagata per la seconda volta, la pratica verrà sospesa perché non ci si lamenta di lei ma della Giovannaccia “…che ora è andata a S. Costanzo e che teneva ridotto di uomini di ogni sorta.” Dice una testimone,”…so bene che essa è stata malata ,ed essa diceva che la causa della sua malattia fu la umidità dell’abitazione, ma si mormora che avesse la infezione venerea…” Infezione possibile dato che la donna 7 anni prima era accusata di aver attaccato il mal francese all’amante Raffaele. Quello che emerge è il quadro di una sessualità in cui la minaccia del contagio venereo è ben presente, ma in un quadro che sembra di convivenza secolare e che rende difficile percepire se il contagio si stesse diffondendo o se a livello popolare fosse condivisa la percezione di aumentata pericolosità vissuta dalla borghesia.

2.8- La città e i suoi pericoli.
La paura del contagio venereo sarà, nel corso secolo, alla base della richiesta dei settori borghesi, di introdurre un sistema diverso: la regolamentazione della prostituzione. Motivi di salute pubblica, di difesa e sanità della nazione, a partire da quella delle forze armate minate dal mal venereo, verranno accampati per coprire la volontà di controllo sociale. Tuttavia nei primi dell’800, non si può dire che sia del tutto scomparso il motivo principale che era stato usato per giustificare l’introduzione del bordello in età comunale: la violenza sulle donne esercitata da gruppi di giovani maschi. Un comportamento che si era probabilmente ridotto nel corso dei secoli. Una testimonianza ulteriore della più generale e progressiva attenuazione della violenza nei ceti proletari urbani che, a detta di alcuni storici, prosegue per tutto il secolo XIX. Comunque, per quanto ridotto, questo era uno dei pericoli che una donna poteva correre in una città. Il quadro di Fano di notte, ci viene tinto dalla parole del cursore della Curia vescovile. “Perlustrando io nella scorsa notte le contrade di questa città per la scoperta di autori di tante pratiche disoneste e scandalose, non passando giorno che non si sentino doglianze delli uomini perché le mogli conversano con uomini sospetti; e delle mogli ancora abbandonate dai mariti per mantenere amicizie e pratiche con donne di pessima condotta, per il che avvengono affari seri e di continuo di sentono reclami…” Un quadro del vizio cittadino che serve al funzionario per introdurre una storia dalle tinte fosche. In queste sue ricognizioni notturne, ha scoperto “…che è venuta in Fano da Novilara una giovane di non molta età e povera, questa lusingata da taluni è stata condotta di nottetempo fuori di Fano e segnatamente nel Brescione del mare per ivi avere la libertà di saziare loro infame voglie….” I coinvolti sono molti, di cui alcuni sposati. Inoltre, Marianna, moglie di Giovanni. dice che ha picchiato la ragazza perché “…si prostituì a diversi uomini fra’ quali ci fu mio marito…..”, la donna abita a nolo a S. Leonardo, fila il bambage ed ha 25 anni. Sono le 2 di notte quando, accortasi che il marito non tornava ha mandato Checco a cercarlo, da questo apprende che l’uomo è in un capanno fuori Pt. Giulia con una donna di 16-17 anni. La ragazza “…era tirata qua e la dai suddetti che si prendevano giuoco.” Marianna si avvicina alla capanna, sente la voce del marito ma non lo riconosce perché “era travestito”. Uno degli uomini si prende gioco di lei dicendole che il marito era fuggito dalla paura…” Seguita il racconto, “…vidi la detta donna che aveva il cappello di paglia , un canestrino al braccio, tutta strappata , per ben giudicarla essere una donna rilasciata e di cattiva condotta…” Il ritorno a casa la dice lunga sul clima familiare “…mi accompagnai con mia madre che volli in casa a dormire, acciò ritornando il marito, e saputo che io andavo in cerca di lui non m’avesse a bastonare, non essendo la prima volta che me ne ha date, a torto e per averlo avertito le tante volte a non tratare con donne altrui e tanto più che tempo fà mi ebbe attaccato il male, che in oggi pare che sia generale, ma me ne son liberata.” Nonostante la gravità del fatto gli uomini non sono subito carcerati ma solo precettati “..a rappresentarsi in questa curia ad ogni cenno…” La giovane protagonista della vicenda è Gentile M., ha 18 anni e viene condotta dal padre per essere interrogata dal Procuratore. Venuta in Fano a portare, come altre volte, un cesto di fichi in regalo ad una famiglia, è andata in piazza, dove ha incontrato la compaesana Prudenza. Decidono di fare insieme il viaggio di ritorno. Ma, dovendo questa “fare i suoi interessi”, Gentile l’aspetta “nel cantone della strada che va a S. Maria Nuova, e quando potevano essere le 22 ore mi si avvicinò un uomo alto di statura , che aveva una berretta turchina in testa, calzoni rossicci come cangianti di rosso e giallo e tenendo una boccia anzi tenendola in mani un ragazzo basso di statura con i calzoni di rigatino bianco e torchino e tenendo anche questo il bicchiere, il primo m’invitò da bevere. Avendo una grande sete bevvi due bicchieri di aquavita ed era dentro tale boccia, pagandone il costo al ragazzo, detto uomo alto. Ed appena bevuto intesi un travaglio di testa…”. Cammina alla volta della chiesa per “ivi starmene in riposo”, ma l’uomo prese una misura di vino in un osteria vicina e “..mi diede due bicchieri di vino che bevvi e mi ubbriacai perfettamente, in guisa che non sapeva più dove mi trovassi, più non rividi la Prudenza suddetta, mi coricai a sedere in uno scalino di una porta, e non so cosa avvenisse in seguito di me…”. La giovane ricorda come il giorno dopo, tornando a casa, passa nella contrada del Suffragio dove incontra Marianna. Questa gli “…desse un morso in una mano e poi diede de’ pugni, e schiaffi, poi voleva alzarmi la sottana per volersi accertare il mio stato di salute…” Siccome erano nella pubblica strada, la contadina spontaneamente accetta di ritirarsi e farsi “visitare” e la donna, “niente conoscendo in me… mi chiese perdono”. Raccontata alla madre la sua avventura fanese, ne ottiene la minaccia “…che da mio padre voleva farmi dare una schioppettata, onde dal timore pensai di andare via di casa”. Dorme una notte in una cannapara e poi si reca da una zia a Bellocchi. Alla domanda se si è accorta di nessun oltraggio ricevuto risponde: “Io non mi sono accorta di nessun oltraggio ne insulto al corpo, ne all’onore, mangio, bevo e dormo bene e non trovo in me alcun cambiamento…” Racconta che un simile avvenimento le è accaduto in Pesaro con un servitore con il quale amoreggiava e che la condusse “…in una casa dove passai quella notte in un canapè vestita. Per cui fui esaminata da quella Curia vescovile ma perché mi misi a piangere dirottamente quel Monsignor Vicario mi fece basciare la sua mano, e mi licenzio”. Gentile appare una giovane inquieta e ribelle. Il suo problema è il padre,”…tuttora mi vorrebbe, io protesto di non voler tornare…”, un padre descritto come senza religione, che non ha preso la Pasqua. “Padre tiranno, io piuttosto mi voglio gettare disperatamente in qualche pozzo….” Una ragazza a cui non mancano proposte come quella del servitore Domenico “sebbene io non lo curi, pare lui dire che mi vuole sposare..” Alla giovane viene impartito il Precetto di “ben vivere” e di coabitare con la zia. La perizia delle ostetriche Antonia e Petronilla valuta che la ragazza non è più vergine e che è stata più volte battuta. La spazzina Maria racconta di aver cercato di aiutare la giovane, quel giorno in piazza, invitandola presso la sua banca perché “…molta gente standogli intorno se ne ridevano di essa , dicendo taluni questa è una contadinotta …. essa ragazza dispiacendosi d’aver tanta gente a torno…” L’interrogatorio di Giovanni M., pescivendolo trentaseienne, marito della Marianna, ci illumina su alcune modalità di relazione dentro le coppia. L’uomo è sposato da tre anni e “quasi tutti i giorni ha da dire con la moglie qualche parola o alterazione… Perché non vuole faticare e quasi sempre vuole andare a spasso”. Si dice solito andare a bere e mangiare dappertutto, colle mogli dei pescivendoli ed altre donne. Ha incontrato la ragazza in piazza, questa, data la tarda ora voleva restare in Fano e lui gli offre un letto in una locanda. Dice che non avendo la ragazza mangiato, la mandò fuori Pta Maggiore dicendogli di aspettare Qui gli avrebbe inviato 2 baj di prosciutto ed un baj di pane. Concorda con la locandiera di andarci verso la mezz’ora di notte, manda a prendere Gentile, ma non volendo lei andare a letto, “..perché era presto, e che in Pesaro era solita andare al caffè ed a spasso” vanno a bere vino alla famosa capanna di Pta Giulia. Secondo la sua deposizione tutto finirebbe li. Tornato a casa non trova la moglie “..che è stata fuori di casa mia circa otto, o dieci giorni.” Non tutti gli uomini però tengono la stessa linea. Un altro pescivendolo confessa che in cinque hanno gettato a terra la ragazza e l’hanno, uno dopo l’altro, conosciuta carnalmente. Cominciano allora le lettere di richiesta di clemenza da parte degli imputati, richieste che verranno accolte anche in considerazione della condizione di ammogliati con prole di alcuni di essi. L’unica giustizia che viene fatta è nella rubricazione del reato che è classificato come stupro violento… Tuttavia Gentile “…di natura bassa, capelli neri, color bianco in faccia col zinale rosso, gonna bianca e cappello di paglia in testa…” tornerà a Fano due anni dopo suscitando lo scalpore generale. La sua immagine pubblica è ormai irrimediabilmente cambiata, “…sebbene sia maritata si è fatta distinguere veramente per pubblica meretrice, essendosi prostituita anche nelle pubbliche strade a diversi uomini …” e pertanto il 28 luglio1827 ne viene ordinato l’arresto. La donna ha vent’anni ed è ormai una recidiva che si dibatte tra la sua condizione di contadina coniugata, con la vita a Novilara nella casa sotto le mura del castello e le sue fughe a Pesaro e Fano. Si e sposata nel novembre dell’anno precedente con Pietro di S. Costanzo. Ma è durata poco, già dopo Pasqua viene condannata e carcerata nella città di Pesaro per essere fuggita dal marito e aver avuto commerci nella città. A Fano e stata varie volte e si è vista con Paterniano Dentone, uno dei protagonisti della vicenda precedente e con il quale ha rapporti, sulle mura dei cappuccini assieme ad altri due uomini. La cosa si è ripetuta con altri ed in altre occasioni. Nel giorno che viene arrestata, aveva iniziato con Paterniano il giro delle osterie cominciando dalla cantina delle orfanelle e sempre a spese dell’uomo. Poi lui la porta in un capanno al Campo Santo, dove con altri tre, “usarono due volte per ciascuno ma stando presenti i tre mentre l’altro usava carnalmente..”. Più tardi il Dentone la conduce a bere in una casa vicino all’Arzilla. Tornando in città lui cerca di procurarle un letto ma incontrano la moglie dell’uomo che la bastona e con la quale racconta: “…ci stroncassimo le navicelle delle orecchie”. Gentile viene subito arrestata e iniziano gli interrogatori degli uomini coinvolti. Questi spesso negano o sminuiscono il loro coinvolgimento. Bartolomeo dice che non ha avuto commercio carnale per paura che fosse impestata del mal venereo…, Giacomo perché non ha avuto l’erezione… Alla donna non veniva dato denaro, le si offriva da bere e da mangiare, come ” consigliava il Dentone…” che “… decideva anche chi prima e chi dopo poteva usare con lei…” Per Gentile la storia si risolve con il divieto di tornare a Fano. Tra le suppliche generali anche Paterniano, che ha “…una povera moglie storpia e incapace a procacciarsi il giornaliero sostentamento…”, è scarcerato col precetto di evitare donne sospette, pena 5 anni. La violenza sessuale dei maschi contro le donne si esprime generalmente contro le più deboli perché di cattiva fama, povere o sole. Donne non si trovano nella condizione di poter o voler reagire alla violenza. La difesa delle loro ragioni non darebbe loro alcun risultato positivo, ne la punizione dei colpevoli, ne il ristabilimento dell’onore. A parte rari casi, come questo di Gentile, il racconto di fatti lo troviamo all’interno di altre vicende. Di una violenza subita in passato parlerà Annunziata, giovane diciottenne nativa di Barbara e serva a Fano da due anni. A Carnevale il giovane di bottega di un sarto “…per forza mi violentò a commerci carnali mentre io rincasava”, la ragazza resiste ma sopraggiungono altri due, un calzolaio e un cappellaio che si uniscono al primo nella violenza. L’occasione per raccontare il fatto è data da una vicenda successiva che può far sospettare una nuova violenza sulla giovane. Questa volta tre coetanei della ragazza, vengono accusati di pubblica immoralità per aver compiuto con Annunziata atti disonesti in riva al mare. Si sospetta la violenza, ma i racconti sono contraddittori e a tutti conviene negare o mantenersi su un registro di ambiguità. Forse perché come dice un testimone “Il figlio di T. è un giovane cattivo e discolo, a questo tiene dietro Chiacchierino ed anche il terzo è poco di buono, ma la donna non deve essere migliore”. Annunziata, a servizio di un “impiegato ne’ sali e tabacchi”, racconta che va spesso a prendere l’acqua salsa per bagnare il figlio della padrona che è infermo. Uscita da Pt Marina e non potendo prendere l’acqua lì vicino si diresse verso il Porto, raggiungendo la spiaggia sotto il monte. Qui ” trovai un capanno, e allora mi determinai a bagnarmi, mi spogliai della veste, non avendo la camigia e mi gettai nell’acqua presso il capanno, poco dopo giunsero dalla parte del mare tre giovanotti…mi sollecitarono dapprima ad atti disonesti, poi mi toccarono nelle parti pudende, mi abbracciarono, mi baciarono e finalmente rifinimmo tutti nudi nell’acqua, e quindi nel casotto mi forzarono a fare del male ma io non acconsentii. Nel frattempo sopraggiunse M. custode del casotto….” Il fatto suscita scalpore per il luogo e le modalità. E’ stato Serafino, guardiano del casotto, a cogliere i giovani sul fatto, quando nella sera del 6 agosto 1840 verso le ore 21 “andetti a preparare il casotto chiuso per la bagnatura del del Sig. Cav. De M. ed accostatomi vidi uscire dal casotto dell’acqua tre giovani…credetti mi avessero fatto una burla per bagnarsi: ma poi entrando vidi una giovane nuda nascosta entro il detto capanno… la avevano violentata ad avere commercio carnale commettendo atti turpissimi come toccarla colle dita nella natura ed altri simili”. L’uomo rimprovera la ragazza perché è in una zona dove la balneazione è proibita alle donne, lei si difende dicendo di non saperlo. I tre giovani da lontano minacciano di bastonarli e allora Serafino accompagna la ragazza fino agli orti. La cosa diventa di dominio pubblico, commosso il sig. Fortunato P. regala alla donna 3 baj “in elemosina”. Non tutti però, racconta il falegname, sono interessati allo stesso modo, Felice, un Riminese che abita vicino alla Posta, “…mi domandò di questo accaduto, e voleva anzi che io gliela facessi trovare nel bagno, ma li feci conoscere che il fatto era stato senza mia saputa e che non era capace di compiere simili delitti..” Abbiamo visto come interrogata Annunziata nega di aver ricevuto violenze e che “… chiacchierino diceva che mentre egli avrebbe fatto il male con me gli altri dovevano partire” Il pescivendolo Clemente, uno dei tre, racconta che avevano deciso di andarsi a lavare colla carretta dalla parte degli uomini e che giunti al casotto “.. vedemmo un orcio con una gonna e credemmo che entro vi fosse qualche donna…e ci bagnammo tutti e quattro denudati. Traversone e D. usarono atti osceni colla medesima e la conobbero carnalmente entro l’acqua”. Lui non avrebbe partecipato, al commercio iniziato in acqua e proseguito fuori. “L’appoggiarono dritta ad uno stipite del casotto e prima la conobbe carnalmente Chiaccierino. poi Traversone”. I due giovani citati sono rispettivamente, Gioacchino D. pescivendolo e Giovanni G. macellajo. Essi negano e dopo una quindicina di giorni vengono scarcerati e precettati “a non trattare con Annunziata e altre donne disoneste…” Anche i luoghi circostanti la città potevano riservare pericoli. E la donna chiacchierata è spesso nelle condizioni di dover affrontare situazioni al limite dell’aggressione, sapendo di non poter contare su particolari tutele istituzionali. Una ragazza che si sa difendere è sicuramente Barbara. Abita col padre lavorante in una possesione della campagna di S. Leonardo e ogni giorno va e viene dalla città dove frequenta la scuola di una sarta. Lungo il percorso subisce il corteggiamento ingiurioso di un giovane che “spesso mi si è accostato per fare inutili ciarle” e che spesso l’aspetta al secondo ponte nel ciglio del passeggio. Lei ha paura perché pensa sia armato e perché l’ultima volta lo ha scansato e lui “è cascato nell’acqua del porto” Barbara, detta Tombola, è considerata sicuramente una ragazza di facili costumi e non deve essere nuova a queste situazioni. Quando sporge la querela sull’aggressione subita è già iniziata da alcuni mesi, nei suoi confronti un’indagine su un presunto parto. Tutto è iniziato da una lettera anonima che denunciava la gravidanza e i sui suoi rapporti con Luigi B e Giovanni C. detto “Boccabella”. A detta del procuratore i genitori darebbero alla ragazza “la piena libertà di trattare” con i due e che oltretutto il primo è sposato. Secondo la sarta, maestra della ragazza, la moglie di Luigi li avrebbe trovati a commettere peccato carnale nel magazzino dove lui lavora le candele. La maestra e suo marito mostrano di aver svolto quel ruolo di tutori della ragazza che la società richiede loro. Riprendono Barbara più volte attirandosi le ire dell’amante. Dopo la sua assenza dovuta alla gravidanza la riprendono a scuola ma la giovane si allontana di nuovo dopo pochi mesi “rispondendo in modo impertinente”. Occorrerebbe uno studio più vasto per poter approfondire anche il problema della violenza individuale rivolta alle donne e direttamente o indirettamente collegata alla sessualità. La fonte da noi utilizzata è carente dato che i reati legati alla violenza non sono trattati dal Tribunale Ecclesiastico ma da quelli dello Stato. Di certo il quadro dei crimini sessuali, della violenza quotidiana all’interno dell’ambiente sociale e familiare avrebbe toni diversi rispetto a quelli che percepiamo dalle nostre carte in cui la violenza appare molto sfumata o tra le righe. Lo sfondo è un ambito familiare dove le percosse sono frequenti. Un ulteriore esempio ne è la “pratica sospetta” che un marito. intrattiene con la sig.ra Marianna G., da interrompere per “… evitare la discordia e dissenzii che regnano tra il suddetto e la di lui moglie la quale ne duole per le battiture, che gli dà il marito…” Il Tribunale ecclesiastico tratta solamente i casi di tentata violenza sessuale come quello del conato di stupro violento operato dal garzone di un colono della cura di S. Leonardo. Di Paulo “…si dice sia un matto …” a detta della serva di Don Pietro, custode della chiesa della Colonna. La donna è l’unica testimone del fatto accaduto in un campo poco distante. Tutto risale a venti giorni prima della querela presentata della madre di Marianna, irritata per la tentata violenza, ma anche perché il giovane”…ardisce senza vergogna d’infamare mia figlia col dire pubblicamente di aver commesso colla medesima atti disonesti.” La ragazza è nata a Rosciano 19 anni prima e da cinque abita con i genitori nelle case a nolo del borgo fuori Pt. S. Leonardo. Fa la gramacciara vale a dire che ” per vivere va raccogliendo l’erba in campagna” E’ in mezzo al campo che il garzone l’assalta, gettandola a terra e colpendola coi pugni, mentre stava a tagliare “le radiche della vena”. Lei strilla, si dimena e riesce a fuggire. Ma i pericoli della città non sono solo la violenza tra i sessi, che riguarda, con pari forza, anche la campagna, è la città come ambiente delle opportunità di corruzione che andrebbe approfondita.

2.9 – Profilo sociale, la mobilità, condotte prostituzionali e miseria sessuale.
E’ difficile definire un profilo sociale della prostituzione anche limitatamente a quella popolare. Le fonti, che inglobano il meretricio in una più ampia categoria di scandalosità, e il prevalere di una condizione non professionale ostacolano ogni tentativo di delimitarne i contorni. Lo stesso Tribunale ecclesiastico, non sembra tendere ad un azione costante sulla meretrice. Al centro del suo interesse sono le donne di frontiera ed i momenti critici nei percorsi dell’onore. L’attenzione è posta sulle donne che viaggiano sull’esigua linea che divide il recupero dell’onorabilità dall’immoralità definitiva, intervenendo in questo momento di snodo. Qui le agenzie ecclesiastiche operano sul terreno per loro impervio dell’efficacia repressiva oltre che della mediazione, della pena oltre che della conciliazione. In questo quadro c’è da chiedersi di quanto differiva la vita delle prostitute da quella delle donne oneste, soprattutto alla luce di una immagine successiva che tenderà a farne due termini due opposti. Per noi occorre parlare di ciclo di vita delle prostitute. Un ciclo non ben definito nel rapporto con l’istituzione, che trova la sua costante nel ripetersi di ammonizioni, precetto e successiva violazione. Il ciclo s’interrompe nel caso di un abbassamento dell’attenzione dell’autorità, del rientro in modalità meno scandalose o nella norma, dell’esilio, più o meno volontario, o di una carcerazione. Un ciclo che può interrompersi rapidamente (per la maggioranza) o protrarsi fino ad età avanzata. L’età delle donne incontrate si situa prevalentemente tra i 20 e i 30 anni, quindi sappiamo che il ciclo inizia qualche anno prima con le ammonizioni. E’ significativo che l’età sia generalmente più bassa tra le forestiere, spesso adolescenti girovaghe prive di riferimenti familiari. I primi anni di questa fascia d’età segnano l’inizio di una disponibilità sessuale che spesso trova esiti sfortunati sul piano matrimoniale e che si orienta verso il rapporto venale. Un elemento che possiamo escludere nella situazione fanese è l’influsso esercitato da uno squilibrio tra uomini e donne, un fatto che in altre realtà europee appare uno dei cardini su cui cresce la sessualità venale. L’equilibrio numerico fanese non significa non esistessero settori maschili collegabili a contesti di difficoltà relazionale con l’altro sesso, basta pensare ai militari, ma sono ambiti tradizionali slegati dai mutamenti creati dallo sviluppo sociale e demografico. Difficile è valutare il numero delle meretrici tra le circa duecento brevi biografie di donne scandalose analizzate nell’ambito del comune di Fano. Il loro numero è sicuramente più vasto di quello delle prostitute professionali dell’epoca successiva. Diversa è ovviamente la densità e la presenza del meretricio tra l’ambito urbano e quello rurale a confermare l’associazione della città col vizio. Tra le professioni dichiarate prevalgono nettamente le filatrici, seguite dalle altre professioni femminili più diffuse in ambito urbano. Presenti anche le contadine, dalle cui fila provengono molte delle serve. Nello stato civile le nostre protagoniste non sembrano differire dalle altre donne dato che la prevalenza di nubili è un fatto normale per la fascia d’età considerata e l’alta età media al matrimonio. Le donne sono quasi tutte analfabete, mentre forti sono i segni legati ad una assenza o carenza del quadro familiare. Un aspetto da indagare sarebbe quello relativo alla presenza di una “tradizione familiare” collegata all’esercizio della prostituzione. Ciò in relazione soprattutto al problema dell’esistenza o meno di una subcultura sessuale legata al meretricio. Il quadro disponibile non permette di definire un profilo sociale specifico della meretrice, ammesso che questo esista. Tuttavia, nonostante esistano casi di prostitute di diversi ceti, il profilo delle prostitute non sembra coincidere con quello delle donne in generale. Esso si avvicina molto a quello delle donne del proletariato urbano. Ma anche rispetto a questo emergono differenze. Molte delle meretrici sono ancora più mal pagate e deprofessionalizzate, più sole per la debolezza familiare, più spesso “autonome” perché costrette a gestire una famiglia o la propria sopravvivenza solitaria. Il profilo della meretrice non esprime dunque una differenza qualitativa rispetto al resto delle popolane, ma semmai una differenza quantitativa. Sono sempre le più marginali. Tipica rappresentante di questa condizione precaria, che oscilla tra la prostituzione occasionale e il tentativo di costruire una relazione stabile, appare Annunziata S., che da circa quattro mesi abita a Bellocchi in casa di Domenico, nonostante la presenza in casa della moglie e del figlio piccolo di lui. Quando lo scandalo prevale sul peccato e l’impegno per la redenzione viene meno, si finisce per espellere. Si crea così una specie di nomadismo dell’illecito. Una mobilità in entrata ed in uscita che tenta di confondersi con quella generale. Anche in questo caso le prostitute appaiono quantitativamente più mobili ma non portatrici di una mobilità diversa. Di certo la capacità di attrazione di una piccola città è limitata, ma le forestiere processate non sono in numero così rilevante (una quindicina circa). Esse provengono, come le altre donne, da località vicine: dalla diocesi o dal resto della legazione. Donne che svolgono spesso attività sospette in occasione delle Fiere. Come due donne e due uomini forestieri, che alzano un osteria sotto una tenda fuori porta San Leonardo in occasione della fiera di San Bartolomeo. . Maggiore è il numero di forestiere che risiedono a Fano per un periodo di tempo significativo, ma ciò non fa che confermare la maggiore difficoltà a sostenersi ed inserirsi di chi è più carente di relazioni sociali. Non conosciamo il numero e le storie delle fanesi girovaghe o i destini di alcune esiliate, ma possiamo rilevare che il meretricio è prevalentemente svolto all’interno della comunità. Ciò appare dovuto al carattere clandestino e occasionale di una pratica svolta come integrazione del reddito. Il mantenere un legame, pur complesso e conflittuale con la realtà d’origine, poteva permettere di sfruttare relazioni utili alla sopravvivenza o ad un reinserimento sociale, magari con un rientro sul mercato matrimoniale di seconda scelta. Crediamo non vada neppure sottovalutata la capacità da parte della donna scandalosa di coniugare col suo stile di vita anche relazioni affettive. Arma a doppio taglio questa, perché la porta quasi sempre sulla via dei rapporti adulterini e della passione. Una via che, se umanamente la nobilita, socialmente la porta alla certezza di una punizione esemplare. Un percorso tormentato quindi che oscilla tra un difficile recupero e l’altrettanto difficile accettazione di un ruolo di ricettacolo dello sfogo seminale. E’ su questo percorso che si colloca la maggior parte delle donne, favorite anche dalla “scarsa razionalità” di un sistema che se non aiuta almeno permette un certo mimetismo .

Il periodo analizzato, precede quello del regolamentazionismo che verrà introdotto dal nuovo stato Italiano e che traccerà le distinzioni tra la prostituzione tollerata e quella clandestina, separate nella speranza di eliminare quest’ultima. Tuttavia, come analizzato per la Francia, il raggiungimento di tale scopo si dimostrerà illusorio di fronte alla estensione e trasformazione delle forme tradizionali di prostituzione clandestina. Qui accenneremo all’analisi di queste forme tradizionali, il loro esprimersi nel contesto della restaurazione, in una realtà periferica. Nel corso del secolo si cerca anche di definire cosa si intenda per prostituta. Per molti autori contemporanei libertà sessuale, vizio e prostituzione non sono che stadi successivi della degradazione femminile. Un approccio vicino a quello le istituzioni pontificie che è centrato sulla scandalosità. Per altri il carattere della prostituzione è dato dalla venalità. Quindi, anche questo, un criterio ampio secondo il quale nella categoria entrerebbero anche cortigiane, mantenute, donne che si concedono ad un amante particolarmente generoso ecc. In seguito la maggior parte degli specialisti di fine ottocento, tenderanno a usare quattro criteri: 1) l’abitudine e la notorietà; 2) la venalità (deve essere un mestiere vero, principale risorsa della donna); 3) l’assenza di scelta, concedendosi quindi a chiunque; 4) l’assenza di piacere e soddisfazione sessuale con la clientela. Una definizione restrittiva che porta ad escludere dal gruppo le donne galanti, cortigiane, le mantenute e le prostitute occasionali. “Ovviamente una definizione del genere, quella peraltro più comunemente accettata nelle inchieste quantitative, tende a minimizzare se non escludere del tutto la prostituzione borghese e a sopravvalutare l’importanza relativa della prostituzione popolare,…” E’ evidente che, oltre a quanto detto sopra, una definizione del genere è costruita su misura della prostituzione professionale, o del suo ideale, ed esclude la maggioranza delle condotte prostituzionali. Essa sarebbe priva di utilità in un contesto come quello da noi studiato dove le strutture dell’amore venale clandestino, funzionano anche in assenza di regole formali, ai diversi livelli sociali e attraverso condotte differenziate. Nel periodo proibizionista da noi studiato queste strutture rappresentano la totalità del fenomeno stesso. Cominciando dall’alto della scala sociale abbiamo figure di donne galanti e prostitute d’alto bordo, che stanno in un rapporto complesso con la prostituzione. Le donne galanti sono donne libere (vedove, forestiere, ecc.) che si distinguono dalle donne oneste per la loro scandalosità e dalle cortigiane per l’assenza di venalità. Nel corso del secolo questa figura tenderà progressivamente ad identificarsi con la prostituta d’alto bordo. Queste donne vengono raramente disturbate dalla polizia, dato che spesso godono di protezioni maschili. Operano da sole a casa propria e per una clientela facoltosa. Esse esercitano una scelta e quindi possono avere l’illusione di darsi a loro piacimento. Spesso si riservano ad un amante esclusivo mentre a volte sono gestite in società da più amanti. Solitamente la prostituta d’alto bordo è stata lanciata dalla madre o da donne a contatto con ambienti prestigiosi. Il mondo della galanteria è molto differenziato, vi si ritrovano aristocratiche o borghesi decadute insieme a figlie di una borghesia popolare salite di rango. Di certo in una città come Fano, parlare di prostituzione d’alto bordo è difficile. E’ più probabile che con situazioni del genere i maschi della classe Possidente locale venissero a contatto nei loro viaggi e contatti con le città maggiori o con il passaggio di attrici o altre donne galanti. Un mondo che ci sfugge a causa della riservatezza e legato ai livelli di mondanità e disponibilità finanziarie di una cittadina. Eppure, tra le righe, la presenza di alcune modalità le possiamo individuare anche in certi casi fanesi come quello rivelato da un ricorso anonimo che attiva l’istruttoria contro Smeralda S. . La giovane ha 18 anni, nel 1838, quando arriva a Fano da Senigallia. Figlia di un Finanziere, motiva la venuta con la ricerca di un ex collega del padre. Arrestata e precettata nel gennaio 1839, confessa rapporti carnali con il Sig. B. e con il cuoco dello stesso. A carnevale si sposa, ma a luglio il marito Sebastiano M., si reca in curia a lagnarsi di lei. Dice che “…è di carattere così inquieto che in questa mattinata tornato a casa per chiederle cosa volesse da mangiare…” è stato aggredito da lei, dalla madre e dal fratello e costretto a fuggire di casa. Interrogata, Smeralda dichiara che “…il cuoco e il B. avevano dato 15 scudi di dote” a patto, convenuto con il marito, di poter venire “…ambedue a fare il male fino a Pasqua”. Dopo non avendo più soldi “segnatamente per cenare” sono iniziate le difficoltà. Il marito sarebbe ricorso in Curia dopo che lei, digiuna dalla sera precedente, si era arrabbiata. Le viene rinnovato il Precetto. Nella primavera-estate dell’anno successivo si ritorna a parlare di lei. Il parroco di S. Marco evidenzia lo scandalo che dà e il marito chiede di procedere per adulterio. Il figlio che lei aspetta non è suo e la coppia non vive più unita. Il risultato è un altro precetto. Si arriva al maggio 1841, quando il marito denuncia le minacce con coltello subite dalla moglie, lei si vanta in pubblico delle bastonate dategli e lui ne chiede la punizione e la separazione. Arrestata agli inizi di giugno, dopo quasi due mesi di carcerazione, la donna supplica di essere liberata ed allontanata dalla diocesi. Viene accontentata e precettata a non tornare più. Dall’accordo per l’uso temporaneo dei favori di una donna, da una libera forestiera di passaggio che tiene in poca considerazione ruoli e autorità maritale ad una donna che sceglie di farsi un minimo di posizione sociale. Una posizione da cui Rosa cerca di ricostruire un rapporto con l’amato, un interlocutore privilegiato rispetto ad altri che le garantiscono un minimo di entrate e protezione. Una donna che cerca anche di tutelare e tenere con se la sua prole di dubbia paternità. Si tratta di Rosa C. vedova F. C. una delle donne che, stando al racconto di Franca O., ha frequentato l’osteria del Porto. Si dichiara tricola, e ha 30 anni nel 1839, quando viene esaminata su una pregnanza da lei attribuita al molinaro Pietro T. Ma la vedova ha poche speranze che l’uomo, che forse ama veramente, possa riconoscerle o rischiare qualcosa per lei. I due amoreggiavano in gioventù e, dice lei, si volevano sposare, “…ma siccome io ero povera e il T. non era ricco, così deposi il pensiero di sposarlo allorché mi capitò l’occasione del F.” il quale “…mi fece una sopradote di scudi 300 atteso che esso era storpio” Ma il marito ha problemi con la giustizia, entra ed esce di prigione, finché vi muore quattro anni prima. Nel frattempo anche Pietro si è sposato. Con la morte del marito la relazione tra i due è ripresa, e lui “…ha usato carnalmente con me come fossi sua moglie”. Nel 1936 e nel 37 Rosa ha due gravidanze successive che attribuisce a lui. Diversa la versione dell’uomo che riconosce la relazione passata e di averle dato 50 scudi per il parto a Pesaro, ma che sostiene di essere uno dei tanti uomini di Rosa assieme a un vetturino , un facchino, il figlio di Traversone ecc. Parla anche di commerci della donna “col primo violino del Teatro nel Teatro” e tali frequentazioni sembrano confermate dai testimoni, in particolare quella con “…il brigadiere dei carabinieri”. Forse anche grazie a queste Rosa è riuscita a restare abbastanza in ombra. Ammonita una volta dal parroco a non tenere a casa sua Camilla di Montebaroccio, che “viveva e vive” disunita dal marito, nonostante un precetto nel 1837, quando è chiamata per una gravidanza sospetta, su di lei non sembra concentrarsi una grande attenzione. Rosa ha già avuto due figli morti a 5 e 3 anni d’età, della terza figlia Filomena è difficile accettare l’effettiva paternità del marito da poco deceduto mentre per la nuova gravidanza, la donna, all’epoca, l’attribuirà ad una sua relazione con il Capo di Finanza, conosciuto ad una festa da ballo “ove mi era recata per vendere le sementine” e poi partito da Fano. Nonostante che “il Fisco non crede al preteso Capo di Finanza ma ….che sia stato un uomo ammogliato, ritiene che abbia partorito illegittimamente due volte e che tenga ridotto a casa sua…” l’inchiesta si era conclusa col solo interrogatorio dell’indagata ed il precetto. In questo e altri casi i comportamenti femminili s’intrecciano con modalità legate alle tipiche di donne d’attesa, di mantenute o di dotate. Ciò evidenzia come la definizione di tipologie è una necessità utile allo studioso ma che va rapportata ad una realtà più articolata, soprattutto quando gli spazi sociali per un’ampia divaricazione delle condotte sono molto limitati. Anche le donne d’attesa, le mantenute e le “dotate” si situano alle frontiere dell’amore venale. La relazione che le lega all’amante è ricalcata sul modello matrimoniale borghese. Le donne d’attesa sono “pseudomogli” che permettono a giovani benestanti di avere una vita sessuale prima di contrarre un matrimonio tardivo o che alimentano nei celibi sfavoriti dalla sorte o impossibilitati a fondare un nucleo familiare “l’illusione di vivere in famiglia”. Alcune donne mantenute da un amante, non sono poi così in “in attesa” o, nell’attesa, sono simultaneamente amanti di coniugati di varie età. Una condizione simile a quella sopra citata sembra quella di Domenica M. meglio conosciuta come vedova F., di cui riparleremo anche successivamente per i suoi legami, nel 1832, con un gruppo di donne scandalose di S.Marco. Nello stesso anno, il Sig. Vincenzo S. è sospettato dal parroco perché pagherebbe 5 baj al giorno alla vedova sopra citata. Partono le indagini ma la trentaseienne Domenica, non ha avuto ricorsi nelle parrocchie di S. Tommaso e S. Cristoforo dove ha abitato precedentemente. La donna, originaria di Saltara, è sola da 4 anni ed è stata ripresa dal parroco quando è andata a farsi sottoscrivere un attestato di povertà. Due anni prima era stata a Pesaro a servizio ma, dice, esser tornata dopo che il padrone, che aveva promesso di sposarla, era stato carcerato. Sostiene che il sig. Vincenzo era amico del marito e”… ha promesso di sposarla appena morta la madre”. Sostiene che l’uomo non l’ha mai toccata e lei non ha avuto a che fare con altri. Ritiene di essere passata “per donna cattiva “perché in casa sua “ci sono molti nolanti con traffico di uomini e donne”. Pur passando per donna di pessima fama e sull’orlo del meretricio Domenica mantiene, nel tempo, il legame con Vincenzo. “Ho frequentato la sua casa di giorno e di notte e moltissime volte ho dormito nel suo stesso letto in sua compagnia”, dirà la donna 5 anni dopo nel 1837. In quell’occasione racconta che, nel 1836, dopo circa otto anni la relazione si interrompe, “per amoroso disturbo nato tra noi” e lui l’anno dopo vuole sposare una giovane. A quel punto la donna accampa dei diritti e si rivolge alla curia chiedendo che venga impedito il matrimonio. Domenica sostiene che, negli anni, lui aveva fatto ripetute promesse di matrimonio. Marianna, la vedova che da più di tre anni “l’alberga” a titolo di carità, testimonia lo stato matrimoniale dei rapporti “…lui la bastonava spesso e ci faceva il suo comodo”. Due evidenti dimostrazioni del livello coniugale della relazione…. La stessa teste racconta come passavano la notte assieme e lei tornava la mattina. Lui avrebbe espresso la promessa anche in sua presenza e cita altri testimoni. Ma la voce di due vedove serve a poco. Dopo un mese Domenica riappare in tribunale e “rinuncia agli atti contro Vincenzo S….per non aver le prove necessarie…altresì è seguita una amichevole composizione…e sia permesso il matrimonio…” Evidentemente il Sig. Vincenzo che, significativamente, non è mai stato interrogato ha provveduto a fornire alla donna una buonuscita che servisse a togliere ogni impedimento alle sue aspirazioni matrimoniali. Le mantenute sono spesso donne di non infimo rango, per provenienza familiare o professione ma tutte dotate di entrate inadeguate. Inadeguatezza che può essere relativa alla sopravvivenza o al mantenimento di una posizione sociale. Può capitare che a volte “il signore” mantenga una donna sposata e insieme il marito. Oppure, caso più frequente nella nostra realtà, doti la donna, per mantenere la relazione o per compensarla della concessione dei suoi favori.. Si tratta di relazioni sessuali interclassiste di stile quasi familiare e che tendono a produrre una frustrazione per la loro difficoltà di realizzarsi e per la visione distorta della realtà che producono. Perché il borghese, quasi sempre, continua a vedere la donna povera come puro strumento di piacere, mentre per la mantenuta passare sopra le barriere sociali produce una grande confusione sentimentale.

Le categorie appena viste mantengono un rapporto complesso con quella delle prostitute. La prostituta invece non è più solo la donna scandalosa ma anche la meretrice riconosciuta come tale. Mentre in futuro questa categoria verrà scissa amministrativamente tra prostitute registrate e prostitute clandestine nel sistema proibizionista tutto si confonde . Ciò crea una difficoltà nel definire con esattezza sulla base della “pubblica voce” la natura ed il livello più o meno occasionale del rapporto mercenario. Nella nostra situazione la modalità prevalente è quella solitaria. Il luogo dove si consumano con maggior frequenza i rapporti mercenari è la casa, o meglio la stanza dove si abita, più che la strada. L’agire di due donne in coppia può avvenire in occasione di Fiere o altri particolari momenti, ma è comunque diffuso, dato che la convivenza di due donne suscita di per se meno sospetto della solitudine. Esistono anche altri motivi ricorrenti, il rapporto tra due sorelle, la ricerca di mutuo sostegno o l’ascendente esercitato da una donna più esperta. Un rapporto di polizia riferisce dell’arresto di Elisabetta T. detta Chivalente, “degna alunna della notissima scostumatissima Maria R. detta Quagliarina, ma forse più di essa benché in assai giovanile età, disprezzatrice delle ammonizioni ed esortazioni di questo ufficio di polizia”. La giovane rifiuterebbe di riunirsi alla madre e di ricevere “i caritevoli soccorsi”. L’agente politico di polizia Severino R. l’ha arrestata “per motivo che lo scandalo era quasi pubblico giacché strada facendo varie persone mi andavano dicendo che dalla T…” c’era un soldato da più di due ore. Sono le ore 24 e non trovando alcun carabiniere l’agente porta con se il piantone di Porta Marina e coglie la donna sul fatto. Una vicina, certa Vincenza, aveva visto in questa ed altre occasioni la donna in “atteggiamento carnale” attraverso un buco nel solaio. “… è noto alla M. e agli abitanti tutti della casa che tutto giorno con Maria R. detta la Quagliarina formano un gran bordello con i soldati che imbarazzano le scale, che appena i medesimi abitanti sono sicuri di entrare nelle loro camere e dando ancora un grave scandalo ai figli.” E’ più difficile trovare, nella nostra realtà, l’utilizzo per gli incontri di negozi paravento, (ma non dimentichiamoci le accuse lanciate da Geltrde T). Diverso il discorso per ciò che riguarda il più tradizionale utilizzo di locande, bettole ecc. L’uso delle case è comunque d’obbligo quando si tratta con una clientela di riguardo. Il 22 giugno 1820, Agela F. detta “Sgarzini”, viene arrestata per spreto di precetto, perché trovata a letto con un uomo “Giuseppe S. Nobile di questa città”. La sua casa, posta dietro l’ospedale, è considerata a detta del Parroco di S. Cristoforo “per opinione fondata del vicinato” un “notturno postribolo”. La donna, nubile, non solo terrebbe male pratiche con uomini sposati, ma la sua casa sarebbe utilizzata da altre persone “del suo pari” come la sorella Maria, sposata, ed una tale “Stinca” anch’essa coniugata. Non solo si utilizza prevalentemente la propria casa, ma la si mette a disposizione di altre donne, finendo per dare nell’occhio. Oscuro resta il rapporto della realtà rurale con il mondo della prostituzione, al quale fornisce molte delle giovani leve della prostituzione errante e di basso livello, giovani che falliscono nel collocarsi a servizio in città. La prostituzione in ambito rurale resta quindi un mistero, quello che possiamo ipotizzare è un rapporto occasionale dei contadini in occasione delle Fiere. Opportunità di contatto con la città o il paese, momento di festa e disponibilità economica, per il maschio contadino. Occorrerebbe anche una analisi più profonda delle modalità di svolgimento della prostituzione errante, nel suo rapporto con la campagna, e della scandalosità paesana. La prostituzione paesana appare, più di quella urbana, legata ad equilibri delicati che possono facilmente rompersi suggerendo alla donna il trasferimento in città. Equilibri spezzati nel caso di Santa S. a cui abbiamo già accennato di sfuggita. La giovane ha 22 anni quando nel 1854 si trova ad affrontare lo svincolo decisivo della sua “carriera di meretrice di paese”. Nata e cresciuta a S. Costanzo dove risiede facendo la “contadina a giornata”, Santa è recidiva essendo stata più volte precettata e carcerata l’anno precedente. La scintilla che innesca la reazione delle autorità è legata agli eventi del 19 aprile quando, in pieno giorno e a vista di tutto il vicinato, introdusse uno alla volta in casa sua, vari finanzieri che attendono fuori dalla porta i turni rispettivi. Secondo il canonico, “oltre ad essere una scandalosa giovane ha tanta arroganza da minacciare ed ingiuriare…una assoluta incorreggibilità e merita una pena esemplare”. Una vedova vicina di casa racconta che la Codina di S. Costanzo ha litigato con la Santa una volta che si è recata in casa sua per vedere se c’era Picciafuoco, uomo conteso tra le due. Costui, a detta della Santa aveva dormito una notte a casa sua e lei gli aveva regalato un paio di scarpe. E’ sempre la vedova cinquantaseienne che racconta il fatto dei finanzieri e si dice minacciata dalla temerarietà ed arroganza di Santa che “dopo che fu carcerata tempo addietro mi disse che avevo giurato il falso contro di essa, ma che pure era viva e libera…”. Una vicina particolarmente inferocita contro la giovane, con un atteggiamento molto più esasperato che nella generalità delle situazioni. Per lei Santa cerca “di sviare la gioventù, si attacca agli uomini anche ammogliati e li invita e li eccita ad andare a casa sua: la notte tiene uomini in casa”, spesso va via e sta fuori fino al far del giorno o per alcune giornate. Ovviamente bestemmia e, aggiunge la vedova, “si reclamò contro di lei e contro chi dopo averla fatta carcerare non la mandò a S. Michele per liberare il paese…” Con simili testimonianze dopo circa 10 giorni viene emesso l’ordine di carcerazione. Passato un mese in prigione la donna viene finalmente interrogata. Ricorda di esser già stata precettata due volte e che “parecchi anni addietro fui stuprata e ingravidata da più uomini”, ammonita dal parroco più volte era stata, l’anno precedente, carcerata per alcuni mesi. La donna nega i commerci con i finanzieri che ,sostiene, erano andati in casa per cercare il fratello che aveva rinvenuto un cartoccio che poteva essere “robba da finanza”. Dopo una ventina di giorni segue un secondo interrogatorio in cui Santa cerca di abbozzare una difesa più articolata. Sulla relazione con Angelo P. detto Picciafuoco, riferisce che si sono conosciuti carnalmente per due anni, “…ma dopo che contrasse amicizia con la maritata e screditata donna Antonia M., io non volli più saperne di lui tanto più che la moglie sua era gelosa e stava inquieta.”. Riconosce di aver regalato le scarpe all’uomo, ma sostiene che dopo il precetto non lo ha più trattato, anche se una sera la M. venne a fargli la scoperta”. Santa evidenzia il fatto che non possa meritare fede “una donnaccia come la Codina o la M. che parla per gelosia del suo amico…”, indegno di fede è pure il testimone Angelo che sebbene ammogliato con figli “voleva trattarmi disonestamente ed io ricusai…” Quanto alla vedova è donna linguacciuta che non le perdona le percosse date alla figlia. Santa chiede perdono per le minacce e per le parole irreligiose proferite a causa della collera. Si appella alla miseria, illustrando anche una presunta linea di comportamento che avrebbe cercato di mantenere per evitare gli scandali. Dice la donna, invocando la bontà della curia, “…se ho mancato qualche volta , la necessità del pane mi spinse la occupazione pessima a trattare con uomini specialmente forestieri, siccome furono li tre finanzieri che venivano a trovare mio fratello. In quanto poi alli paesani li ho sfuggiti, appunto perché non mormorassero di me, ma non mi ha giovato perché fecero peggio che mai…”. Sono proprio i paesani a richiedere in questo caso una punizione esemplare forse più per le numerose inimicizie che la donna si è creata che per altro. Mentre in casi analoghi si sarebbe usata una ulteriore tolleranza Santa viene considerata incorreggibile. Il 12 agosto 1854 la Congregazione Criminale Ecclesiastica di Fano emette la sentenza di condanna a 4 anni di reclusione al S. Michele di Roma.

Nel complesso le condotte che sembrano prevalenti sono quelle di una prostituzione di basso livello collegate a modalità erranti o al rapporto prevalente con i militari. Tipica “ragazza da militari” e prostituta errante appare la jesina Angela. Orfana di padre, si giustifica “Essendo la famiglia ridotta all’indigenza mia madre impotente a faticare va elemosinando, io per guadagnare il pane andetti a Jesi dove fui sedotta ad intraprendere una vita disonesta; unitami con i soldati sono venuta a Fano…” Una immagine che ricorda quella tradizionale delle prostitute che seguono i reparti militari nei loro spostamenti. Eppure anche questa immagine di basso livello andrebbe valutata attentamente, soprattutto per ciò che riguarda i militari. Scapoli, non sempre giovanissimi, essi sono in alcuni casi disponibili al matrimonio. Essendo quello Pontificio un esercito a carattere mercenario e professionale, i militari hanno una disponibilità economica incomparabilmente superiore ai futuri militari di leva. I circa 10 baj di soldo giornaliero di un militare ai livelli più bassi, dava ad uomini già vestiti e nutriti una disponibilità economica che pochi proletari potevano permettersi. Inoltre erano relativamente numerosi, a Fano sono sopra il centinaio e anche quando la città perde, negli anni centrali, il presidio della truppa di Linea, i nuovi militi delle truppe Ausiliarie di riserva, reclutati su base provinciale, suscitano comunque l’interesse. Anzi, il carattere locale della truppa rafforza le possibilità di chi non esclude possibili evoluzioni del rapporto. La prostituta errante attira rapidamente l’attenzione, spesso per la giovane età e i comportamenti poco accorti. L’intervento è rapido come nei confronti di Domenica B., una sedicenne orfana nata ad Acqualagna che ha abbandonato il patrigno a Pietralata di Cagli. Già carcerata a Fossombrone per atti turpi, viene arrestata dopo tre giorni che è a Fano, proveniente da quella cittadina. In città ha preso alloggio alla locanda presso P.ta Giulia. Luogo conosciuto e sospettato dalla Curia. Non è la prima volta che la ragazza viene a Fano perché è già stata a servizio da un ortolano per sette mesi. Domenica racconta che, alle 23, stava per uscire da Pta Romana quando un giovane la invita ad entrare in una bottega di libri, all’interno della quale c’è in altro uomo. I due chiudono la porta e commerciano carnalmente con lei. Ma arriva la Forza e, continua il racconto, “…fui arrestata e così non fui pagata” Locande ed esercizi simili sono tenuti sotto controllo, in esse le forestiere sono notate anche quando godono della copertura interessata degli esercenti. La giovane jesina citata in precedenza alloggia presso Luigia B. albergatrice cinquantaduenne, che ha mancato “nel trascurare di far parte a questa Curia” dell’ospitalità che ha dato ad Angela. La donna, ha 20 anni e si è stabilita da una settimana a Fano, nell’albergo in zona S. Marco, sostenendo di avere in città un fratello militare. Ma i militari che la vanno a trovare sono numerosi e la ciarle camminano rapidamente. Arrestata dichiara che sono venuti molti soldati “e hanno avuto commercio carnale con me, questi mi hanno pagato da mangiare ed hanno dato 1 paolo alla detta Luigia”. La donna supplica la liberazione “tanto più che trovasi infetta di male venereo, vorrebbe restituirsi alla sua città per curarsi.” Illuminante sul rapporto locandiere-meretrice e sulle alchimie matrimoniali con i militari appare la vicenda seguente, anch’essa ambientata nella citata locanda di Porta Giulia. Qui è alloggiata anche Nazarena, moglie di Angelo soldato Provinciale di guarnigione a Fano. Il cinquantanovenne Antonio “canestraro e locandiere” racconta che la donna è ospitata alla locanda e paga 3 baj per notte (4 quando dorme anche il marito). Avendo bisogno di una serva l’ha assunta ma non la paga perché libera di lavorare, afferma che la credeva onesta ma, essa stessa gli avrebbe confessato “che in Sinigallia teneva vita scandalosa ed era pubblica meretrice”. Qui la zia ostessa le faceva da ruffiana ed era stata più volte carcerata dalla Curia. Racconta che il marito la tratta da puttana e l’ha bastonata quando ha saputo che aveva rapporti con il figlio di S. di nome Vincenzo. La donna, che è stata allontanata dalla fortezza per disposizione del comandante, viene esiliata da Fano per ordine della curia. Ma lei ritiene di dover tornare in città per riunirsi al marito. Arrestata viene interrogata ed espone le sue ragioni. Nazarena ha 23 anni, si dichiara tessara, ed è sposata da un anno. Riconosce il suo passato e dichiara che il motivo della sua assunzione nel locale era “…di farmi commettere il male con li forestieri che capitavano nella sua locanda”. Li conduceva in camera dopo che il marito era uscito e pagavano il locandiere che le dava pochi baj. Nega il rapporto col giovane S. E’ stata dal padre a Senigallia ed è tornata perché pensava il marito malato e perché in quella città credevano avesse abbandonato il coniuge. Ma non è tornata alla locanda e da quattro mesi alloggia a Fano in una casa. Chiede di essere rimandata alla sua città comunicando però a quella Curia che non è stata scacciata dal marito. Viene precettata a partire da Fano. In questo caso si evidenzia come il matrimonio poteva essere un obiettivo da perseguire, sia nell’ottica di una fuoriuscita dal meretricio che in quella di ottenerne la copertura. Tuttavia poteva creare degli inconvenienti supplementari come il rischio di essere accusate di abbandono del coniuge. Una contraddizione del sistema quando ad ordinare la separazione o il ricongiungimento sono due Curie diverse. Matrimoni spesso difficili e malriusciti, dato che sui militari si accentrano anche altre sorveglianze. Ma anche relazioni difese sfruttando le contraddizioni delle Istituzioni. Anche un altro soldato ausiliario, il calzolaio Giuseppe G., si trova a dover gestire la cattiva fama della moglie Elisabetta, urbinate ventitreenne, in grado di scrivere il suo nome. La donna, già espulsa da Pesaro, aveva seguito il marito quando il reparto si era spostato a Fano. Qui le viene preclusa, dopo poco tempo, la possibilità di risiedere nella fortezza, sospettando l’amicizia con un altro soldato e che sia infetta di mal venereo. La misura si colma quando la donna prende alloggio alla famosa locanda di Porta Giulia E’ da un anno che l’uomo è a Fano e Elisabetta racconta il suo peregrinare, con il figlio piccolo, al seguito del marito. E lei che nel suo interrogatorio espone “che questa locanda nella città è disgraziata”, ma lei non ha colpa della cattiva fama che al locale è venuta dopo la vicenda di Nazzarena. Sa che dai soldati è ritenuta donna disonesta ed è accusata dell’amicizia col soldato Raffaele e “…che fossi infetta dal mal francese, che avessi appestato la compagnia”. Opinioni condivise dal capitano, e che in passato hanno costretto il marito a ricondurla da Pesaro a Urbino. L’interrogatorio della donna si conclude con il riconoscimento della colpa, “…confesso di aver avuto commercio carnale col detto Raffaele,…per altro il figlio è di mio marito. Mi raccomando di tener tutto segreto, perché altrimenti mi troverei disonorata e nel pericolo di non essere più ricevuta da mio marito. Sono pronta però a partire subito da Fano…”. L’esito dell’esilio appare scontato anche se non ne abbiamo conferma. Elisabetta non è una meretrice, passa per donna di cattiva fama, ma il marito è disposto a difenderla e forse le sue suppliche vengono accolte. Due suppliche interessanti, scritte da mani diverse e presentate a suo nome. La prima si muove sui binari tradizionali; la presenza della moglie serve al buon andamento familiare e lui non potrebbe mantenerla in caso di lontananza. La seconda, fatta scrivere la mattina in cui deve essere eseguito l’ordine di partenza della donna, alterna la foga retorica a una sottile volontà di giocare sulle contraddizioni del potere e sulla segretezza della “confessione” della donna. In questo quadro è difficile cogliere l’emergere di nuove condotte prostituzionali, ed il loro innesto su quelle di ancién regime. Una di queste ci appare lo svilupparsi verso la metà del secolo del fenomeno delle case di appuntamenti. Ma potrebbe trattarsi solo di una maggiore visibilità del fenomeno dovuta solamente una attenzione più selettiva da parte delle autorità. Infatti a partire dagli anni trenta, si comincia a porre nei riguardi della scandalosità delle più chiare divisioni. E’ in quegki anni che i Tribunali centrano la loro attenzione sui reati di lenocinio e adulterio. Il Lenocinio batte strade conosciute. E’ il caso di alcune professioni, sempre al centro del sospetto. Del mestiere della tricola abbiamo già accennato, esso si presta al sospetto di copertura di attività collegate alla dissolutezza. Nel caso di Margherita G., 46 anni, coniugata, l’accusa è di Lenocinio. Essa avrebbe, col favore della sua professione, dato copertura ad incontri galanti, e specialmente agli incontri tra il Sig. F. e Teresa figlia della “Ferrajolina”. La sua casa è frequentata da persone di ogni qualità e anche di fuori città specialmente da Pesaro, “essendo una pubblica Tricola”. La donna è in relazione con la famiglia del F. perché ha ricevuto da questa piaceri e denari che usa per svolgere prestiti di denaro su pegno. L’ultima occasione di visita dell’uomo, e quindi sospetto pretesto per incontri galanti, sarebbe stato il prestito di 1 scudo su un filo di corallo che ne valeva 3. Ma accanto a questi schemi tradizionali emergono anche quadri e reti di relazioni abbastanza complesse, che vedono collegare diverse case e diverse donne con un ruolo organizzativo ricoperto da altre. I fruitori di queste reti che operano per appuntamenti promossi ed organizzati sono soprattutto uomini coniugati, ma è interessante notare come vi vengano coinvolte donne sposate in vena di galanterie o in veste di meretrici occasionali. I fili di queste reti complesse non sono retti necessariamente da prostitute o ex prostitute. Figure come quella di Smeralda, lenona e prostituta, che capeggia, ricoprendo un ruolo di riferimento, un gruppo di donne più giovani. Sono presenti anche altre tipologie di lenone e ruffiane. Nel 1832, una serie di indagini mettono in evidenza una trama di relazioni che collegano 3 case sospette della cura di S. Marco. Nelle vicende sono coinvolte 6 donne, con diversi ruoli unitamente una numerosa schiera di uomini. La prima casa, posta vicino a quella degli orfani, è abitata da nolanti, la seconda in contrada Marcolini è la casa di Fortunata G. detta Ferrajolina, personaggio centrale della vicenda ed inquisita per “Lenocismo”. La terza è la casa di Costanza B. usata occasionalmente. Le prima sede è quella dove, nell’aprile, prende il via la vicenda, in essa abitano tre delle protagoniste, La vedova F. (Domenica M.) , Brigida R. detta Chiacchierina e Annunziata C. detta Maccaria entrambe sposate. Nella casa convivono in pessime condizioni abitative 5 coppie e 5 persone sole. Condizioni che facilitano il contatto ed il controllo. Una vicina cinquantaquattrenne, racconta che la camera della vedova F. è dentro l’appartamento da lei abitato, l’atrio e la sala sono in comune, mentre la camera rimane divisa da un tramezzo “per cui dalla mia si sentono i discorsi e le mosse” La vedova F. è la più conosciuta e ha 36 anni. Racconta la vicina “Quando io andetti ad abitare in quell’appartamento mi fu avvisato che la detta F. era una pubblica puttana, ed io ho dovuto confermare nella suddetta voce”. Molti uomini frequentano la casa di notte e di giorno e le tre donne, che sono in rapporto con la Ferrajolina, si sostengono a vicenda. La vedova, nella sua o in altre case, incontra il Sig. Vincenzo S. ma, sostengono le vicine, ha commerci anche con i due fratelli di lui, con il sig. Antonio M., mastro Antonio e il Sig. Giovanni impiegato dell’appannaggio. Questi ultimi li incontrerebbe a casa della Ferrajolina. Nella casa della vedova si fanno ricreazioni con cibo e vino invitando gli uomini. Inoltre la donna fa utilizzare la propria stanza a Brigida e controlla che non arrivi il marito. Brigida è la più giovane del gruppo, 26 anni, ma ha alle spalle una difficile convivenza matrimoniale che dura da dieci anni. Il marito “fà il mestiere del pesce”. Un marito geloso che la bastona. Lei, a detta della vicina “diventa sempre più cattiva e perché bastonata dal marito giorni sono , essa diceva nella strada alla mia presenza e di altri = Mio marito mi ha dato 4 o 5 cazzotti che valevano un papetto l’uno, ma io domani gli voglio subito mettere un corno e adesso si fa presto col beneficio delle vesti che hanno l’apertura davanti = ” La chiacchierina ha già suscitato clamori perché sorpresa dalla moglie di Domenico G. nella casa., un’altra volta sarebbe stata tutto il giorno a letto con il B. nella camera della vedova. La solita vicina Teresa, ha sentito “i discorsi e i baci”. Interrogata, Brigida confessa qualche commercio carnale col B., ma chiede carità “anche riguardo a mio marito il quale si metterebbe in procinto di ammazzarmi” Gli uomini picchiano quando sospettano il tradimento, ma picchiano anche quando tradiscono. Francesca S., moglie di Domenico G., l’ultimo amore di Brigida racconta la “scoperta” fatta a casa della stessa, dove ha trovato la donna seduta sulle ginocchia del marito. I due si baciavano alla presenza della vedova F., “poco dopo la sorpresa mio marito mi venne adosso con uno scorcello e mi colpì nelle spalle invece della testa e volle proseguire nella pratica” Della terza donna, Annunziata C., al momento si sa solo che è amica delle altre due. Come l’irruzione di una moglie aveva attirato l’attenzione sulla prima casa, così a luglio, una lite tra vicini mette di nuovo in evidenza la relazione tra fatti narrati e l’opera della Ferrajolina. Fortunata G. è una lavandara di 40 anni, che vive in contrada Marcolini. Sposata da 17, il marito è storpio e lei sostiene di necessitare di aiuto. Per questo si avvale di Maria R. la Quagliarina, donna da noi incontrata in precedenza e che ha ormai 46 anni. La Ferrajolina racconta il sabato della lite: “feci cuocere alcuni bigoli dalla Quagliarina, per pranzo ma la spesa fu in comune tra me, la Q… e una certa Barbara”. Dopo pranzo si appisola e viene svegliata dal clamore fatto da una donna” che cominciò ad ingiuriare me e le altre donne coi titoli di Puttane e Ruffiane” Dopo un po’ scende in strada per lamentarsi, allora la donna che grida la graffia in faccia. Più tardi anche il marito di questa la insulta e schiaffeggia. La donna arrabbiata è vicina di nome Geltrude, tessitrice quarantanovenne, che lamenta che nella casa si ricevono soldati e paesani, “…questo scandalo aveva prodotto per la contrada della mormorazione e dei reclami al parroco, per cui le suddette donne con qualche riguardo si astenevano dal ricevere…la Ferrajolina credeva che io fossi stata la spia…ero motteggiata e insultata”, quel giorno gli insulti andarono oltre e le donne si bastonano “scambievolmente”. E continua, “non nego di aver alzato la veste come fece la F. ma in quel momento eravamo accecate dallo sdegno”. Esempio interessante del comportamento e della rissosità delle donne del popolo, donna onesta e scandalosa si attengono a modalità comportamentali simili. Infatti, le due nella foga, “…si alzavano le vesti davanti mostrando la loro vergogna, ciò produsse un pubblico disprezzo…” racconta la serva di Fortunata. E’ quest’ultima, la Quagliarina, la più debole delle donne coinvolte, dati i suoi precedenti, ad illustrare con più completezza vicende e ruoli. La Fortunata è la Ruffiana della Brigida “Chiacchierina” e le tiene mano nei suoi amori. A tale proposito cita almeno quattro uomini tra cui Carmine A. , che a detta di Fortunata avrebbe infettato di mal francese Brigida alcuni anni prima. La Ferrajolina la ospita in casa e le organizza incontri in casa di Costanza B. e di Giovanna P. “In occasione dell’arrivo di guarnigione dei Dragoni la detta Fortunata ha aperto un pubblico postribolo in casa sua”. Tra i frequentatori abituali della casa ci sarebbero stati un maresciallo ed un soldato. “Per quanto è mia notizia la dette donne non ricevono alcun pagamento, anzi la Chiacchierina ha regalato ai soldati e a quelli che commettono il male con lei camice, ricordini, tracolle e l’istesso fa la Barbara”. Brigida frequenta al momento Domenico G. “il quale strapazza con le bastonate la moglie”. La serva ci dà anche le prime informazioni su Annunziata M. “la Macaria” che ha l’amicizia di un certo Turpè M., soldato ausiliario. Sembra anche che il marito di costei nutra dubbi sulla paternità dell’ultimo figlio. Secondo la Quagliarina è la chiacchierina che le tiene mano in queste relazioni. Al suo turno d’interrogatorio, Annunziata riconoscerà all’altra donna un ruolo guida nella dissolutezza e rivendica per sè il tentativo di riprenderla più volte per le sue azioni, “ma essa faceva una sgrollata di spalle” Brigida viene interrogata e getta la responsabilità sulla Ferrajolina che tiene in casa “ridotto di donne cattive, e di più va seducendo le altre”. Confessa che, con un Dragone col quale aveva preso dell’attaccamento, “per otto giorni ci trovassimo sempre in casa della F., la quale dava gli appuntamenti rispettivi…non fu presa mai alcuna paga e anzi ho dato al Dragone una camicia che esso mi promise di pagare”. Barbara, la Barbaraccia, ha 36 anni e non viene nemmeno interrogata, anche lei come la Q. è conosciuta e già inquisita nel 1823, quando, col marito lontano, trattava i soldati. Fortunata, la presunta lenona, sostiene che in casa sua i soldati venivano per avere commerci carnali con le tre donne”…ma ogniuna aveva un particolare soldato più affezzionato”. Il motivo, più o meno reale, per il quale i soldati andavano alla casa era dovuto al fatto che Barbara e la Quagliarina lavavano mentre la Chiacchierina stirava. Le donne venivano per “concerti presi precedentemente”, mentre la Quagliarina, abitando con lei c’era più facilmente. La donna racconta anche particolari che illustrano aspetti e modalità di qualche rapporto. Così, quando il soldato al quale Brigida si era affezzionata era stato trasferito a Pesaro a causa della relazione le donne vanno a trovarlo. E “tutti insieme mangiassimo del pesce e dell’agnello che fu pagato dalla stessa Chiacchierina la quale pagò anche la carrozza di vettura”. Questa disponibilità economica della Brigida verrebbe dal fatto che, “ha una chiave falsa del cassetto del marito da dove sottrae il denaro, oppure gli leva dalla saccoccia …quando è addormentato”. La presunta Lenona sostiene che, lei dai soldati, non ha ricevuto altro che da mangiare. La donna viene carcerata e nella sua supplica sostiene che “la cagione del Lenocinio” sono stati il consorte storpio e la mancanza di mezzi. Dopo pochi giorni verrà scarcerata e precettata di “ritenersi la città in luogo di carcere”. Annunziata e Brigida vengono solamente ammonite dal Parroco di S. Marco. Della Quagliarina e della Barbaraccia non se ne sa nulla, la loro laidezza e irrecuperabilità forse non è considerata nemmeno meritevole di precetto. Della Ferrajolina e della sua azione di contatto ed organizzazione di incontri se ne sentirà parlare, a torto o a ragione, in altri procedimenti. Certo è che in questo caso è riuscita a convogliare e organizzare una varietà di donne e clienti con esigenze e tipologie estremamente diversificate. Dalle casalinghe inquiete alle meretrici notorie, dalla clientela piccolo borghese ai militari. Dal rapporto per mangiare agli incontri galanti. Non sappiamo se interpretare questo fatto come indice di un “comportamento imprenditoriale” o il risultato di una situazione in cui qualsiasi opportunità materiale che potesse facilitare lo sfogo sessuale veniva utilizzata da ognuno, in base alle necessità e fuori da schematismi. Qualcosa di analogo ci sembra suggerire un osteria del porto al centro di un procedimento per “adulterio, pubbliche dissolutezze, lenocinio e pubblica prostituzione.” E’ Franca O. ad attirare l’attenzione sul luogo. Ha 24 anni, fanese, unica sopravvissuta di 4 figli, abita al porto con i genitori ed è già stata precettata due anni prima per pregnanza. Inizialmente i sospetti si erano orientati su un ammogliato dello stesso quartiere ma l’indagine non aveva portato ad una conclusione certa ed era stata accettata la versione della ragazza che addossava la responsabilità ad “un forestiero di Pesaro”. La ragazza ha una nuova pregnanza che spiega con il ritorno del forestiero che gli ha dato qualche paolo per carità. Ma di fronte alla curia la ragazza denuncia la madre che la costringe a trattare l’uomo e “…che l’ultima volta l’ha chiusa a chiave dentro la casa perché facessi il male col medesimo…” La madre la costringeva a ciò per avere denaro e quando questo non voleva pagare lei strepitava ed il vicinato era sempre disturbato dalle sue grida. Ma non si tratta di un singolo caso. Franca dice esser stata costretta anche alla lussuria degli altri clienti dell’osteria. Madre e figlia litigano continuamente e “scambievolmente ci siamo trattate da puttane ma quel che è peggio , non mi vuol dare il pane da mangiare, onde prego a V.S. a collocarmi in altro luogo “. Franca racconta ciò che succede all’osteria dove la madre riceve le “puttane straniere e gli uomini e i soldati”. Permette di usare le camere e ritiene che forse è pagata per questo. La descrizione ci illumina sul punto di vista dei contemporanei relativamente al panorama dei frequentatori e alle condotte prostituzionali. “Ci venivano anche le puttane di Fano cioè la G. ossia Catterina vedova, la Sabina S., la Angionina ora malata, la Rosina C., Maria O., la Santina ed altre”. Quando c’era la G., “non so perché andetti alla messa”. Il marito della S. l’ha cercata mentre era in camera con il fornaio detto Il Cremonese e bastonata per averla trovata sotto il letto. “La zia Maria aveva relazione con un soldato e ci discorreva in osteria”. La Rosina è andata una volta con il pescivendolo Fortunato M. che da questa unione si diceva attaccato dal mal francese ,. “La G. era puttana dei soldati” . La Barulla giovane è venuta qualche volta con un pescivendolo di Pesaro… La madre Domenica, 46 anni, sposata da trenta con Camillo O., nega tutto. L’ostessa riconosce solo che nel suo locale vengono la Sabina e la Rosa. Il marito, dal canto suo, ci tiene ad apparire defilato nella vicenda, la moglie ha aperto un’osteria “…ma io non ho mai avuto alcun prodotto, anzi sono alimentato dai miei genitori e solamente nella sera vado a dormire nell’osteria; non nego la detta mia mogli sia di un naturale inquieto e così ardita che io non ho potuto por freno alle di lei licenze biasimata da tutti , ma quel che più mi è dispiaciuto ha resa disonesta la figlia Franca.” L’uomo conferma nella sostanza il racconto della figlia La moglie minacciava di bastonarlo e lui si è sottomesso, chiede compassione per la figlia e che la moglie non sia ridotta all’indigenza essendo lui miserissimo e a questo ridotto dai “disordini della moglie la quale mi ha tutto sprecato” Non può pagare per liberarla. In questo caso la famiglia diventa una delle agenzie che non solo non contrasta il meretricio, ma addirittura lo promuove, lo sfrutta e organizza. Una situazione non rara. In un altro caso i ruoli famigliari appaiono ancora più ambigui, come poco chiare appaiono le preoccupazioni di vicini e soprattutto dei locandieri. Apparentemente si tratta di una vicenda centrata su una madre che utilizza la figlia indirizzandola verso un rapporto mercenario rivolto a ceti più agiati. La contrada della Posterna, nella cura di S. Marco, è il teatro principale della storia di Giulia B. Di lei ne parlano una vicina, il locandiere e la locandiera dell’Albergo del Moro. Le tre testimonianze di una inchiesta che appare senza seguito, forse per gli argomenti, le persone che tratta o forse perché le testimonianze sono ritenute “poco verdiche”. Forse si tratta di persone che si presentano a testimoniare per evitare accuse di complicità o gli esponenti di una maldicenza feroce. A noi, nel dubbio, sembra una delle tante pratiche senza seguito perché affrontate con altre modalità Giovanna, una vicina di casa, dice di essersi recata a testimoniare, perché picchiata dal marito arrabbiato per le voci che dicono “servisse da ruffiana” alla giovane Giulia. Di questa ha frequentato la casa e vi ha visto fare Lotti e ricreazioni con forestieri e ufficiali. Sa anche che Giulia “è andata a mangiare all’Albergo Del Moro, mantenuta da un ufficiale Pontificio”. Una volta l’ha accompagnata da un altro ufficiale al quale ha portato sette paia di calzette lavorate e ha aspettato nella camera adiacente mentre Giulia “andette con lui nello scrittojo; l’invitò da atti disonesti ed essa si ricusò ma poi sentii che il detto M. gli disse va via brutta porca puttana buzzurona l’ai dati agli altri e la niegj a me ? così dicendo gli dette un calcio e la cacciò via.” L’ha accompagnata anche da un terzo ufficiale ospitato in Casa Carrara “sotto pretesto di una scatola di tabacco”. Sante, il locandiere, racconta che la madre di Giulia invita “paesani e forestieri” a entrare in casa sotto pretesto di “fare Riffe o dei lotti o del Tabacco ed altri simili ripieghi” e che in casa “si fanno delle mangerie e poi la suddetta Giulia in vece di prestarsi al commercio prende il membro virile degli uomini e gli eccita alla polluzione nelle sue mani. La madre poi si fa pagare di questi atti disonesti”. Ha frequentato la locanda ma ne sarebbe stata allontanata quando ci si è accorti del suo comportamento con gli ufficiali. Giulia ha 18 anni, interrogata si definisce tessitrice e riconosce un solo amore, quello per un Senegagliese che la voleva sposare e che “…per tenermi custodita mi collocò presso B. cursore di questo Tribunale”. Per un periodo si vedono ogni dieci giorni, ma dopo quattro mesi l’uomo la lascia perché lei è tornata dalla madre. La ragazza imputa alle informazioni negative date dal cursore la cattiva opinione che l’uomo si era fatto della madre. I genitori erano già stati chiamati in curia per le dicerie sorte su una famosa cena fatta nel passato carnevale e alla quale erano intervenuti due uomini e due donne. La ragazza nega ogni imputazione e sostiene che in un caso è andata alla locanda su richiesta della proprietaria. Fortunata B. la locandiera è persona bene informata o particolarmente malevola…. In merito al interrotto fidanzamento dice che l’uomo, un carabiniere, voleva sposare la giovane e l’aveva collocata a casa del cursore B. perché aveva saputo dalla stessa Giulia che il padre aveva commercio carnale con la figlia. Del fatto la locandiera si dice al corrente perché la madre “si lagnava con me che non poteva salvare la figlia dalle insolenze e commerci carnali che tentava il padre di usare colla medesima…il Padre rimproverato da me alla presenza della moglie e della figlia diceva di aver solamente toccato nel petto la figlia allorché dormiva in letto nella medesima camera…” Nei quattro mesi la madre, “vedendo di non poter più mangiare alle spalle della figlia la richiamò a casa”. Giulia alla locanda andava a scherzare con i forestieri”…e gli metteva le mani nella patuella alla pubblica presenza” Lei non voleva che la frequentasse la locanda ma dice di non essere riuscita ad evitare che mangiasse in camera e si trattenesse con un Tenente “per tre o 4 ore colme”. “Nel passaggio delle Truppe Pontificie per Sinigallia gli ufficiali si fermarono nella mia locanda e tutti chiedevano la Giulia da loro ben conosciuta”. Tutti i forestieri ospiti della locanda, “Secolari, Preti, Ebrei, Militari sono sotto vari pretesti fatti chiamare nella casa o bottega contigua…” Un Tedesco sarebbe stato “pelato” della borsa dalla madre e la stessa in un’altra occasione propose la figlia, per soldi, a petto scoperto e gonne alzate ad un ufficiale che mangiava. La locandiera aggiunge che sono frequenti le risse per il fatto di essersi trovati più amanti insieme. In un festino in Casa C. (non basso rango) la Giulia e la Teresa Stinga, “si ubriacavano di spiriti per cui commettevano con gli uomini mille laidezze talmente che con loro dai giovani si facevano la caccia come si fa con i bovi…” Forse anche per la peculiarità, più volte citata delle fonti, la presenza maschile appare debole nello sfruttamento di una prostituzione povera e svolta prevalentemente in maniera occasionale e autonoma. Una lettura della miseria sessuale a Fano, fa rilevare come appaiano prevalenti i referenti tradizionali della stessa. I militari e gli ammogliati dei ceti medio bassi sono la categorie maggiormente presenti come clienti del meretricio popolare. Scarsa è la presenza delle categorie dell’emarginazione e del deficit fisico, portatrici di una miseria sessuale che spesso può trovare nel rapporto mercenario l’unico referente. Non sono completamente assenti i possidenti, forse alla ricerca di alternative più allettanti e raffinate del declinante rapporto con le serve. Dall’analisi dei processi risultano pochi giovani scapoli. Quando questi ci sono, la loro presenza, se legata alla venalità, è riferita a soggetti dotati di possibilità economiche o a militari. Appaiono poco quelle masse di celibi proletari che in realtà urbane sviluppate segnano l’ampliarsi degli spazi dell’amore venale. Maschi urbanizzati e con scarso inserimento sociale, la loro limitata presenza è un ulteriore indicatore dell’arretratezza di un contesto che non fornisce a nuovi settori maschili o femminili grandi opportunità. Sono gli sposati ad avere un minimo di risorse economiche in più. Ai giovani squattrinati resta l’esercizio della seduzione o la tentazione della violenza tradizionale e di gruppo sulle donne. Un comportamento del passato che tende fortunatamente al declino.